«Forse il problema, ancora più grave del doping è dato dalla cocaina. Ne gira parecchia nel mondo del calcio. Il fatto è che dopo due giorni che si è assunta la sostanza è impossibile che ai controlli ne rilevino le tracce. Per riscontrarla si dovrebbe ricorrere all’esame del capello. Se lo facessero, credo che i positivi alla cocaina sarebbero parecchi...». Così, parlò ad Avvenire qualche tempo fa Lamberto Boranga, medico sportivo ed ex portiere di serie A. L’abuso di cocaina nel mondo del pallone sta diventando un fenomeno serio di cui si discute poco, ma ventisette anni fa quando giocava Angiolino Gasparini, era praticamente tabù. A lui, il “vice Facchetti” nell’Inter e poi colonna difensiva dell’Ascoli (481 gare tra serie A e B) di Carletto Mazzone, il 29 luglio del 1981 toccò in sorte il triste primato storico del calciatore fermato per cocaina. Non fu il classico stop dell’antidoping dei giorni nostri, ma un regolare mandato d’arresto da parte della Polizia che andò a prenderlo nel ritiro dell’Ascoli. Un risveglio triste in quel mattino d’estate, poi l’incubo delle porte del carcere che si richiudevano alle sue spalle. Una storia che per sentirla dalla viva voce di Gasparini occorre raggiungere il suo rifugio di Borgo La Caccia dove dirige l’omonima cooperativa agricola inserita all’interno della Comunità Lautari - fondata nel ’92 dall’imprenditore Gianni Bonomelli con un gruppo di tossicodipendenti - . L’ex stopper biondo ha chiuso da un pezzo con il calcio e adesso si diverte a sussurrare ai cavalli della scuderia e a giocare a briscola «a cinque» con Davide (uno dei fondatori e responsabile della Comunità), ma non manca di partecipare anche alle partitelle di pallone con quei ragazzi che stanno portando avanti la loro sfida alla tossicodipendenza. «A loro ho raccontato tutto della mia esperienza. È cominciato tutto quando giocavo nel Verona. Ho iniziato per curiosità, come tanti. Una sniffata la domenica sera dopo la partita, poi dici: “Se faccio un tiro anche al giovedì che male mi può fare?”. E invece è finita che dopo cinque anni di questa vita ero arrivato al punto di chiudermi in bagno a “pippare” anche il sabato in ritiro, alla vigilia della gara. Ero finito in un vicolo cieco...». Forse se non fossero andati ad arrestarlo sarebbe potuto calare il buio nella sua esistenza. «Sono stato otto giorni in carcere (uso personale di 50 grammi di cocaina), ma a ripensarci li ho vissuti da privilegiato: ero il calciatore di serie A, l’uomo pubblico. La prima preoccupazione fu per i miei genitori, mi dispiaceva farli soffrire per quel casino che avevo combinato. Una settimana prima avevo conosciuto Giovanna che poi è diventata mia moglie. La sua presenza è stata fondamentale. Ma la cosa più importante in quel periodo fu il grande amore verso il calcio che mi riabbracciò subito, anche se all’antidoping poi “casualmente” sorteggiavano sempre me. Comunque senza la passione per il calcio mi sarei potuto perdere per sempre come è successo a tanti ragazzi della mia generazione... ». Quella “polvere bianca” porta dritto dentro un tunnel che hanno sperimentato tanti calciatori dopo di lui a cominciare dal più grande di tutti, Diego Armando Maradona il quale ha confidato al regista Emir Kusturica: “Senza la cocaina sarei stato un giocatore ancora più grande”. «E ha pienamente ragione. La cocaina non serve a niente, non ti fa star meglio, ma anzi, ti prosciuga il cervello e il portafoglio. Complica ogni cosa con il passare del tempo, ma soprattutto non migliora la prestazione in campo. Quando leggo storie come quelle di Bachini e Flachi mi dispiace, ci sono passato e so che cosa significa. Il danno fisico e mentale non è mica paragonabile allo stop della giustizia sportiva... Quello che mi fa impressione è venire a sapere che adesso ci possano essere giocatori che abusano della “coca”, mi sembra una storia da fantascienza, anche perché come si fa ad arrivare lucidi in un calcio in cui si gioca a cento all’ora? È vero anche che rispetto ai miei tempi adesso la cocaina la trovano dappertutto. Per un giocatore è ancora più facile procurarsela visto che vive in un mondo dorato e in una dimensione di onnipotenza che gli trasmettono i tifosi, la dirigenza, i media. Il problema è che quando diventi dipendente dalla droga allora le cose cambiano in un attimo, come una partita: le persone cominciano ad allontanarsi e ti lasciano da solo con il tuo problema. Vedi la fine del povero Edoardo Bortolotti... Non so chi avrebbe dovuto aiutarlo, ma penso che si poteva fare molto di più per lui». Parla con la saggezza di un padre Gasparini, che adesso nella vita di tutti i giorni si muove con l’autorevolezza “presidenziale” di Giacinto Facchetti che è rimasto il suo punto di riferimento. «Il calcio ormai lo vedo solo in tv, ma è un mondo in cui ho incontrato anche tanta bella gente a cominciare da quel monumento di umanità che resterà per sempre Facchetti. Le emozioni che provavo in quei 90 minuti giocati al suo fianco rimangono le più forti. Avrei voluto continuare a viverle fino a cent’anni… Ai ragazzi di adesso dico che se si ha la fortuna di fare del calcio una professione allora devi giocare con l’anima fino a quando le gambe ti sorreggono. La passione non ha prezzo, la cosa più importante non sono i milioni dell’ingaggio, ma l’amore che provi verso questo sport. È grazie a questo amore che puoi salvarti da tanti pericoli e continuare a giocare con l’entusiasmo di un ragazzino anche quando invecchi. Io anche domani gioco lassù al campetto con i miei ragazzi. Per loro sono un amico, una persona che capisce il vuoto che sentono nell’anima e che cerca di dare il suo contributo all’interno di un progetto molto importante in cui mi sento coinvolto, prima di tutto come uomo».