Agorà

SPORT E CRISI. Calcio crac, un sistema fallito

Massimiliano Castellani martedì 14 luglio 2009
Addio al calcio “pane e salame”. In un solo colpo “chiudono” le pre­miate fornerie del pallone di Pisa, Avellino, Treviso, Venezia e Sambenedette­se. Club che hanno fatto la grande storia del­le provinciali, lanciato decine di talenti, spaventato le grandi in campo e in tribu­na con presidenti vulcanici come Romeo Anconetani e Antonio Sibilia. Un passato glorioso rovinato dalla mesta uscita di sce­na per debiti. Sotto la lente attenta della Covisoc i loro conti risultano pesantemente in rosso: si va dai 12 milioni dell’Avellino, i 15 del Treviso, fino ai 17,7 del Pisa dell’ir­reperibile presidente Pomponi. «Di tutte queste società, in realtà solo due provengono dal nostro campionato di Pri­ma divisione, Sambenedettese e Venezia. In questo caso i problemi dei dirigenti delle due società sono legati a motivi extracalci­stici », si affretta a precisare il presidente della Lega Pro, Mario Macalli. Vero, perchè, Pisa, Avellino e Treviso sono appena retro­cesse dalla Serie B. Ma lo scenario falli­mentare non è che assuma tinte meno fo­sche. Lo sostiene l’avvocato Guglielmo De Feis, consulente di “Sport e Diritto” e con trascorsi calcistici in una delle società “can- cellate”, la Samb. «Siamo dinanzi al teatro dell’assurdo, situazioni che hanno poco a che vedere con la pratica sportiva visto che il più delle volte ci si trova a dover accerta­re la bancarotta fraudolenta o preferenziale - spiega De Feis - .Una società come la Sam­benedettese dal ’94 a oggi, è già incorsa in due precedenti fallimenti, con tanto di arresti e fughe misteriose in Tahilandia da parte della proprietà. Il ve­ro problema è che manca­no degli organi di control­lo che impediscano di arri­vare a simili conseguenze, anche se una recidività del genere meriterebbe una ri­partenza dalla Terza cate­goria e non dalla prima se­rie dei dilettanti. Il tutto, co­me sempre va a scapito dei tifosi e dell’o­norabilità di città importanti anche da un punto di vista culturale, come Pisa e Vene­zia» . Comuni in cui le amministrazioni piangono sempre dopo che il club è già ca­davere da un pezzo. «Mi stupisco di come le amministrazioni locali in questi casi non intervengano preventivamente per salva­re il salvabile - continua De Feis - . Il so­spetto è duplice: o sono inconsapevoli di mettere nelle mani di personaggi incapa- ci e poco trasparenti i club delle loro città, oppure è semplice disonestà. Purtroppo l’equazione reale e diffusa che passa è sem­pre più quella di: calcio uguale mondo lo­sco ». In effetti, fino ad oltre la zona Cesarini, le società incriminate di crac e i loro patron, invocano sempre il salva­taggio economico con il ri­pescaggio disperato nei pro­fessionisti. Solo Giuliano Zucco, dopo 12 anni al ver­tice dell’Ivrea, alla fine del torneo di Seconda divisione, in cui il suo club aveva otte­nuto la salvezza, ha deciso di rinunciare all’iscrizione al campionato. «Una scelta do­lorosa, ma coraggiosa. In un momento di crisi come que­sto, con il rischio concreto di proprie mae­stranze in cassa integrazione, Zucco non se l’è sentita di proseguire nel calcio desti­nando i propri capitali alle famiglie » , ha commentato il presidente Macalli elo­giando la scelta isolata dell’ex patron del-­l’Ivrea che ora ripartirà dall’Eccellenza. Una delle tante storie di un fenomeno a­nomalo che per De Feis è assai diffuso. «Stiamo assistendo alla fine di un’epoca e al collasso di un sistema in cui la famosa “spalma- debiti” presentata come una manna da Galliani, è servita solo a salvare le grandi società, ma non club di dimen­sioni del Treviso che fino a tre anni fa gio­cava in Serie A». Il Treviso “muore” proprio nell’anno del suo centenario (l’Avellino do­po 97 anni), anche se era rinato appena se­dici anni fa, nel 1993. Sorti analoghe a quel­le delle tante società che hanno chiuso, la­sciando sul mercato un marchio più o me­no appetibile e un’armata brancaleone di disoccupati che al momento conta 150 gio­catori in cerca di nuova squadra. «Questo sistema ha creato ormai un esu­bero occupazionale del 100% - dice De Feis - . Paradossalmente, il marchio di un club appena fallito, ma con una forte tradizio­ne alle spalle, diventa molto più appetibi­le per i potenziali acquirenti che con una spesa minima si portano a casa un pezzo di storia del calcio». Ma come si spiega il fatto che chi cade dal­la serie B ha un tale contraccolpo che poi non riesce ad iscriversi al torneo di Prima Divisione? «Per quanto riguarda le società provenienti dalla serie B - chiude amara­mente Macalli - posso dire che senza re­trocessione avrebbero continuato a gioca­re. Perchè nella serie maggiore 10 milioni di debiti si tollerano, mentre da noi con centomila euro di disavanzo si va fuori».