Intervista. Il sassofono di Francesco Cafiso: «Se non c'è ironia allora non è jazz»
Il sassofonista siciliano Francesco Cafiso
l suo sax alto ha fama mondiale da quasi vent’anni, eppure Francesco Cafiso ne ha soltanto 28. Alle spalle una imponente discografia e una valanga di concerti e di collaborazioni. A 9 anni anziché andare al mare con la famiglia era in tour con la sua band. Tre anni dopo il trombettista Wynton Marsalis lo sente suonare al Pescara Jazz Festival e a 13 anni l’enfant prodige è in giro per il mondo con lo “zio Wynton” e le sue All Stars. Oggi il newyorkese Francesco in Sicilia torna di quando in quando, dalla Sicilia invece i suoi conterranei antenati pionieri del jazz, anzi del “ jass”, se ne andarono per sempre a cercare fortuna nel Nuovo Mondo non sapendo che proprio a New York avrebbero registrato cent’anni fa il primo disco della storia del jazz. Francesco Cafiso da Vittoria suona il sax, Nick La Rocca da Salaparuta suonava la cornetta e guidava la Original Dixieland Jass Band. Venivano da New Orleans, il più caleidoscopico crocevia di suoni, la patria di un genere e di uno stile che per Cafiso è la matrice di quel jazz che lo rapì ancora bambino e lo sta portando a incontrare il mondo e la vita in nome della musica. Il 19 gennaio esce il suo nuovo disco, un omaggio a quel primordiale jazz già nel titolo: We play for tips, suoniamo per le mance. Era la scritta che a New Orleans molti musicisti di strada portavano sui cappelli.
Un nuovo disco e una nuova etichetta musicale, la sua.
«Sì, inauguro la mia etichetta indipendente E Flat. Ed è il primo disco prodot- to da me. È un omaggio alle radici del jazz e per questo ho scelto un organico adatto, che possa ricreare l’atmosfera di quelle marching band. A New Orleans mi trovai a 14 anni con l’energia e l’entusiasmo di chi ha ancora tutto da scoprire. Per un mese intero suonai nei club, per strada, sui balconi. Un’esperienza che mi ha segnato. Dixieland e swing sono ancora le mie passioni e a New York ho deciso di mettere radici».
Sta per lasciare la sua Sicilia?
«Sì, sto decidendo di trasferirmi nella Grande Mela per un po’ con mia moglie Alessandra. Ci siamo sposati a giugno e finora abbiamo passato più tempo in America che a casa. Ma adesso però sono a Vittoria, ho fatto alcuni concerti qui in Italia e presenterò questo nuovo disco del Francesco Cafiso Nonet».
Poi l’addio?
«Per un musicista gli addii non esistono. Certo, è chiaro che New York a livello artistico offre tantissimo. Lì ogni volta che vado rivedo musicisti che avevo incrociato anni fa quando ero ragazzino. E poi c’è Marsalis, che io chiamo “zio Wynton”. Con me è molto affettuoso, mi vuole molto bene. In una città come New York la pressione è tanta e c’è molta competizione. Avere Marsalis come punto di riferimento, per me è una forza in più».
Il nuovo disco, dieci brani tutti scritti da lei, è stato però registrato proprio a Vittoria.
«L’abbiamo inciso lo scorso giugno durante il festival jazz che ho fondato dieci anni fa e di cui sono direttore artistico. È un disco molto scorrevole e riflette una grande intesa. Siamo un gruppo di amici prima ancora che di musicisti, a partire dal pianista Mauro Schiavone che ha collaborato con me all’arrangiamento. Tranne il trombonista peruviano Humberto Amésquita e il batterista australiano Adam Pache, siamo quasi tutti siciliani».
Come i pionieri Nick La Rocca e Tony Sbarbaro, cent’anni fa.
«Dixieland, New Orleans e swing sono sempre stati gli elementi fondamentali del mio jazz. Sono la pulsazione vitale, la matrice, insieme al blues. Ma un ingrediente fondamentale nella mia musica è l’ironia. Mi consente di non essere o di non sembrare troppo serioso. L’ho sempre avuta e nella musica di questo disco è molto presente questa vena giocosa, soprattutto nell’improvvisazione».
Come Louis Armstrong...
«Anche per questo è sempre stato per me un punto di riferimento indispensabile. In We play for tips c’è un brano dedicato a Pops che, insieme a Satchmo, era il soprannome di Armstrong. Ma nel disco c’è anche un omaggio a Marsalis, Blo-Wyn’. Un gioco di parole unendo l’inizio del verbo soffiare (blow), quello che fa appunto un trombettista, e la prima parte del suo nome».
Per una star da sempre internazionale come lei com’è oggi il jazz in Italia?
«Musicisti ottimi, grandi personalità. Ma si è un po’ confinati, ci si chiude un po’ troppo all’interno di singoli progetti senza ampio respiro. Così ho pensato di dare vita a una mia etichetta anche per far crescere un gruppo di talenti di casa nostra da promuovere e sostenere. Ma anche per realizzare con maggiore libertà i miei futuri progetti musicali».
E quale sarà il prossimo?
«È presto per annunciarlo. Ma sarà un progetto di largo respiro, persino multimediale. Una grande storia che diventerà musica. Una specie di fantastico romanzo musicale che porterà la mia nave dei sogni in giro per il mondo. Il senso del jazz in fondo è proprio questo. Senza confini per incontrare persone e raccontare storie che abbattono le barriere e diventano musica».