Storia. C’è un giudice ad Atene (e non solo per Socrate)
«La morte di Socrate» dipinta da Jacques-Louis David (1787) / Alinari
Appartenere all’Elmo Magico (se così vogliamo chiamarlo) darà anche privilegi, ma espone anche a molti rischi, primo fra tutti quello di finire sotto processo con un’imputazione sulla quale pesa, in modo più o meno riconoscibile, il sospetto della speculazione politica. Siamo nell’Atene del V secolo a.C. e l’elmo in questione sta sul capo di Pericle, il grande stratega la cui azione di governo coincide con l’apogeo della democrazia greca. Anche lui aveva i suoi guai giudiziari o, meglio, li avevano le persone della sua cerchia più stretta: la bella Aspasia, per esempio, ma anche lo scultore Fidia, il filosofo Anassagora, il sofista Protagora. Tutti costretti a difendersi dalla medesima accusa, sia pure formulata in riferimento a circostanze di volta in volta differenti. A loro, come a Socrate, viene mossa l’accusa di asébeia, una delle più gravi previste dall’ordinamento ateniese. Sempre che di ordinamento in senso stretto si possa parlare, si capisce, e non di un insieme di consuetudini e disposizioni che ancora oggi attendono di essere approfondite e accertate.
Muove da questa considerazione Atene a processo, il saggio edito da Zanichelli nel quale l’antichista Laura Pepe (docente di diritto greco alla Statale di Milano) ricostruisce il quadro complessivo delle norme procedurali ateniesi attingendo principalmente al complesso patrimonio delle orazioni giudiziarie (pagine 282, euro 26). L’argomento è molto meno specialistico di quanto si potrebbe immaginare e non soltanto perché, grazie all’analisi proposta dalla studiosa, è possibile apprezzare la vivacità narrativa di autori come Lisia e Demostene, dai cui testi provengono appunto numerose informazioni relative all’andamento dei processi ad Atene. Più in generale, il nodo che il saggio affronta è quello di una società che, pur non essendo arrivata alla costituzione di un coerente corpus giuridico paragonabile a quello del diritto romano, ha sempre nutrito un fortissimo sentimento della giustizia. Ne dà testimonianza uno dei brani più celebri dell’epica omerica, ovvero la descrizione dello scudo di Achille nel XVIII libro dell’Iliade, dove viene evocata la pratica della poiné, il “riscatto” che l’uccisore può versare alla famiglia della vittima per interrompere il meccanismo della vendetta.
Com’è noto, il passaggio dalla legge del sangue, che impone la ritorsione contro chi abbia contaminato la comunità, alle «leggi della città», che introducono un principio di negoziazione, è uno dei temi decisivi della tragedia, evidente nella struttura dell’Orestea di Eschilo (le Erinni, vendicatrici spietate, assumono da ultimo l’aspetto di Eumenidi pacificanti) così come nell’Antigone di Sofocle, incentrata sul conflitto latente tra la le regole imposte dal tiranno Creonte e l’appello irresistibile alle «leggi non scritte» che dovrebbero guidare la convivenza tra i cittadini.
Non si tratta soltanto di una suggestione poetica. Le «leggi patrie», nel senso di immemoriali e non codificate, giocano un ruolo rilevante nel processo intentato all’altezza del 400 a.C. ad Andocide per gli strascichi di un precedente dibattimento in materia – ancora una volta – di asébeia. Solitamente tradotto con empietà”, il concetto è in effetti molto più articolato. In un’opera attribuita ad Aristotele, Le virtù e i vizi, la si definisce come un’offesa non solo contro gli dei e i demoni, ma anche contro i defunti, i genitori, la città stessa. È il crocevia nel quale si colloca il “caso Socrate”, del quale Laura Pepe ripercorre con estrema precisione ogni fase, suggerendo l’ipotesi che un atteggiamento meno sprezzante dell’imputato avrebbe probabilmente evitato il pronunciamento della condanna a morte. Ma anche sulla sentenza contro Socrate pende l’ipoteca dell’accanimento politico, causato nella fattispecie dalla vicinanza tra il filosofo e il discepolo Crizia. In più di un’occasione, dunque, l’asébeia diventa lo strumento di cui una fazione si serve ai danni di un’altra. Politico in senso stretto è invece un altro capo d’accusa, quello di usurpazione di cittadinanza, che si rafforza per iniziativa dello stesso Pericle. Si deve a lui, infatti, l’irrigidimento del principio per cui, per essere considerati ateniesi a pieno diritto, occorre dimostrare di essere nati da genitori astói, termine che designa una sorta di cittadinanza “in potenza”, in mancanza della quale risulta impossibile partecipare attivamente alla vita della pólis. A questo ius sanguinis niente affatto temperato (che fa di Atene una città quasi del tutto refrattaria all’integrazione dello straniero) subentrerà con il tempo un’esclusione sostanzialmente basata su criteri di censo: anziché tra astói e non astói, insomma, la distinzione passa tra più e meno abbienti, con effetti di diseguaglianza altrettanto pronunciati.
Non è l’unica contraddizione che Atene a processo porta alla luce. Anche nell’ambito dei reati contro la persona (l’omicidio, l’aggressione fisica, l’ingiuria) le orazioni passate in rassegna da Laura Pepe tradiscono una mentalità a tratti paradossale, che sembra gisutificare l’ironia che il commediografo Aristofane riservava alla passione dei suoi concittadini per i processi. Nonostante tutto, però, è ancora ad Atene che emerge la nozione della responsabilità individuale, in virtù della quale viene definitivamente superato il dispositivo della rivendicazione tribale. Fosse stato giudicato sull’Acropoli, forse il seduttore Paride avrebbe evitato di coinvolgere l’intera Troia nelle conseguenze dell’affaire con Elena. Una guerra ci sarebbe comunque stata, ma solo in tribunale.