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Olocausto. La sopravvissuta Ginette Kolinka: «C'è troppa pulizia oggi a Birkenau»

Daniela Pizzigalli sabato 25 gennaio 2020

La sopravvissuta ai lager nazisti Ginette Kolinka

Aveva diciannove anni Ginette Kolinka nel marzo del 1944, quando fu arrestata dalla Gestapo insieme a suo padre, al fratellino e al nipote. Da Parigi, dove abitavano, la famiglia si era trasferita ad Avignone e sperando di sfuggire alle leggi razziali il padre si era procurato documenti falsi in cui il loro cognome straniero passava per russo, e la religione figurava ortodossa. Ma non fu sufficiente: qualcuno li denunciò e i nazisti, constatata la circoncisione dei maschi della famiglia, arrestarono chi era in casa in quel momento, fortunatamente senza appurare che al piano di sopra si trovava la madre ammalata.

Cominciava per Ginette un incubo durato poco più di un anno, in cui fu vittima e testimone dell’immane catastrofe umanitaria della Shoah, un’esperienza sconvolgente che dopo settantacinque anni, grazie all’iniziativa della giornalista e scrittrice Marion Ruggieri, ha raccontato in un libro che riallaccia la disperata sopravvivenza della ventenne Ginette all’attuale missione divulgatrice della novantaquattrenne che guida gli studenti nelle visite ai campi di Auschwitz- Birkenau: Ritorno a Birkenau (Ponte alle Grazie, pagine 90, euro 12).

Arrivata in italia per un incontro-testimonianza in occasione del giorno della memoria, la vivacissima Ginette ribadisce l’importanza della presenza di un sopravvissuto nelle visite guidate ai campi: «Per quanto le guide locali siano accuratamente selezionate e istruite, soltanto i deportati possono rievocare nei dettagli gli orrori subìti, che vanno oltre ogni immaginazione, tanto che noi stessi, pur arrivando nei campi con l’aspettativa di severe privazioni e duro lavoro, eravamo presi alla sprovvista dalla sistematica cancellazione della nostra umanità, che non si limitava al tatuaggio di un numero: la nudità totale, la rasatura, le percosse incessanti, le panche dove ammassarsi per i bisogni corporali in comune, il cibo scarso e disgustoso ti spegnevano il cervello, così com’era stato pianificato dai nazisti, che per poterci schiavizzare e poi sterminare dovevano strapparci ogni velleità, ogni sentimento, che non fosse quello della pura sopravvivenza. Persi subito mio padre e mio fratello, che furono portati alle camere a gas. Il mio rimorso incancellabile è che io stessa, quando scendemmo dal treno che ci aveva portati lì, consigliai a mio padre, che era sessantenne e indebolito dal viaggio, e al mio fratellino dodicenne, di fare l’ultimo tratto fino all’ingresso del campo sul camion destinato 'ai più stanchi'. Ignoravamo che si trattasse della prima selezione: 'i più stanchi' vennero subito eliminati».

Benché ammassata fra migliaia di donne, lei ha vissuto un’esperienza di solitudine, a parte qualche occasionale gesto di solidarietà, come il vestito ricevuto in dono da una ragazza di nome Simone, che era poi Simone Weil, diventata un personaggio di spicco in ambito culturale e politico.
È vero, a parte quell’eccezione non ho ricordi di nomi o di volti delle persone con cui condividevo le giornate e le notti, nella stessa cuccetta a tre per tre perché, come dicevo, mi si era spento il cervello e pensavo solo alle mie necessità di sopravvivenza. In un certo senso però è stato un bene che non avessi familiari con me, perché dover contendere un pezzo di pane a una sorella, o rischiare la vita per difendere mia madre dalle percosse sarebbe stato un trauma ancora peggiore.

Che cosa le ha permesso, dopo la guerra, di ritrovare l’equilibrio e la normalità: forse riallacciare i rapporti familiari?
Dopo la liberazione mi sono ricongiunta alle mie cinque sorelle e a mia madre. Mi ha aiutato a reinserirmi soprattutto stare insieme alle sorelle, persone giovani, non proiettate sulle tragedie passate. Ma devo ringraziare anche il mio temperamento semplice, non incline alle complicazioni. Per evitare la depressione ho ripreso subito a lavorare al nostro banco di maglieria al mercato di Aubervilliers, mi sono sposata e ho avuto un figlio, insomma, ho fatto una vita normale e felice, non bisogna essere troppo intelligenti nella vita, né pensare troppo!

Com’è avvenuto il suo ritorno a Birkenau?

Per caso, come succede spesso: le grandi svolte possono avvenire per circostanze inaspettate. Fino al 2000 non a- vevo mai parlato della deportazione, non volevo affliggere i miei cari, né tediare gli estranei. Un giorno, quando ero ormai vedova e in pensione, passeggiando nel mio quartiere ho visto un negozio dove entravano parecchie persone e per la curiosità mi sono unita a loro: era la sede dell’Unione Deportati, che apriva solo di giovedì. Ho incominciato a frequentare regolarmente, più che altro per prendere il tè e fare quattro chiacchiere, finchè mi hanno chiesto di andare a parlare in qualche scuola. L’Unione Deportati organizzava anche viaggi per studenti nei campi di sterminio, accompagnati non solo dalle guide specializzate, ma anche da sopravvissuti all’Olocausto. Io non avrei mai pensato di partecipare, ma un giorno si è ammalata la persona che stava per partire e mi hanno chiesto di sostituirla. D’impulso mi sono rifiutata, temevo di non essere all’altezza perché non ho studiato, poi mi hanno convinto e ormai lo faccio spes- so, anche perchè siamo rimasti in pochi a svolgere questo compito necessario.

Che emozioni ha provato nel tornare a Birkenau dopo cinquantacinque anni?
Tutti si aspettavano che crollassi, mi sorreggevano, ma il trauma è stato in un certo senso alla rovescia. Ho detto: “Ma no, non è qui!” perché vedevo tutto lindo e ordinato, ben diverso da come lo ricordavo: niente calca, niente sporcizia, né fetore né fumo, né urla, solo baracche vuote impeccabilmente restaurate. Per questo raccomando agli studenti di chiudere gli occhi mentre ascoltano il mio racconto, per non farsi ingannare dall’aspetto di scenario teatrale che ha oggi Birkenau. E ricordo loro: “Sotto ognuno dei vostri passi c’è un morto”.

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