Il Burundi è uno dei Paesi dove il male ha segnato tragicamente la vita di generazioni di uomini e donne. Quanta sofferenza e quante stigmate che durano anni e si comunicano in quella trasmissione enigmatica e terribile del dolore, del
mysterium iniquitatis. Anche per questo la forza delle religioni può e deve essere decisiva, a condizione che esse non si lascino strumentalizzare a fini politici e cerchino sempre e solo il bene di tutti, in particolare dei più poveri. Nel piccolo Paese «cuore dell’Africa» vi sono state testimonianze straordinarie di come la fede può aiutare a contrastare la logica della violenza, spezzandone la catena, seminando amore. Penso ai quaranta giovani seminaristi, tra i 14 e i 20 anni, di Buta. Qui il 30 aprile 1997 il Consiglio nazionale per la difesa della democrazia-Forze per la difesa della democrazia (Cndd-Fdd), allora guerriglia che si contrapponeva al Governo, volendo uccidere solo i tutsi, chiese agli hutu di separarsi dai loro amici. Non lo fecero e vennero massacrati tutti. «I seminaristi rifiutarono, dicendo che preferivano morire insieme, piuttosto che tradire gli amici tutsi», ha testimoniato padre Nicolas Niyungeko, rettore del santuario di Buta. Sono morti da martiri della fraternità e hanno così reso onore alla Chiesa del Burundi, in cui tanti cristiani hanno seguito le vie dell’odio e della violenza tribale». Quaranta giorni dopo il massacro, la cappella del seminario è stata consacrata a Maria, Regina della pace. Da allora, conferma padre Nicolas, essa è diventata «meta di pellegrinaggio incessante per i burundesi che vengono a pregare per ottenere la riconciliazione e la pace per il loro popolo, la conversione e la speranza per tutti». Proprio in quei mesi eravamo a Roma con la Comunità di Sant’Egidio cercando di avviare il dialogo tra il governo e il Cndd, esercizio successivamente raccolto dalla mediazione di due tra le più grandi figure dell’Africa contemporanea, Julius Nyerere e Nelson Mandela, ad Arusha. Gli accordi, firmati nel 2000, posero le prime basi per arrestare la violenza, sfida che non dobbiamo mai dimenticare o sottovalutare, in un Paese come il Burundi e ovunque. Purtroppo non sappiamo, a due anni di distanza, se la morte violenta delle missionarie saveriane
Olga Raschietti, Lucia Pulici e Bernardetta Boggian abbia a che fare con le tensioni che attraversavano il Paese. Gli impegni che erano stati presi di cercare gli assassini e di fare giustizia si sono del tutto arenati. Questo libro ci aiuta a comprendere la loro vita di missionarie, svoltasi sostanzialmente tra il Sud Kivu (Congo) e la capitale burundese. Tutta la zona è attraversata da una violenza che supera le frontiere e rappresenta un contagio pericolosissimo. La loro è la testimonianza di donne che hanno dato tutto quello che avevano, che sono rimaste per limitare i frutti amari della guerra e della divisione. Sono tanti i riferimenti diretti delle tre sorelle alla guerra e alla violenza di cui il libro è costellato. Olga, scrivendo alla sua parrocchia d’origine, a Sant’Urbano, dopo aver lasciato Luvungi, parla della guerra nel Kivu come di «un pericolo», ma che ha rafforzato il suo amore per «un popolo tanto provato dalla sofferenza». Lucia descrive una conseguenza delle violenze sulla popolazione: «Anche per l’attuale insicurezza sulle strade, frequentate soprattutto di notte da militari armati, una percentuale molto alta di donne partorisce ancora in casa», mentre non si sofferma troppo sulle violenze subite personalmente durante le ripetute razzie dei militari. Nei testi di Bernardetta tali riferimenti sono presenti pressoché in ogni pagina. Da poco rientrata a Luvungi, a fine 1997, scrive alla sorella Anna di aver trovato «una situazione indescrivibile: povertà, fame, malattie e tante famiglie nella sofferenza per la morte dei loro familiari nella grande fuga. Alcuni, bambini compresi, hanno fatto a piedi 2.000 km abbandonati alla mercé dei militari ruandesi che avevano il piano di sterminarli. Quelli che si sono salvati sembrano cadaveri ambulanti». Nel 2000 è testimone del massacro di 300 persone: si reca all’indomani sul posto e, di nascosto, scatta le fotografie che permetteranno di documentare l’accaduto. I testi raccolti in questo volume narrano anche la grande dedizione con la quale Bernardetta, quando non è chiamata a incarichi di governo generale della sua Congregazione, esercita l’attività di formatrice rivolta agli adulti e ai bambini; la passione di Lucia per il lavoro di ostetrica; lo zelo del servizio di catechista di Olga, che approfitta del suo ministero per visitare i poveri della comunità. Appare evidente, in ogni pagina, che il tratto caratteristico del loro servizio missionario è stato la capacità di farsi uno con il popolo al quale sono state inviate. Si comprende solo in questa luce la scelta di ritornare in Africa, contro quanto potevano consigliare la salute e soprattutto l’età avanzata. Esse sono in realtà la testimonianza di una vita spesa fino alla fine, di una giovinezza del cuore, di una vecchiaia che non smette di avere sogni. Tale condizione, del resto, non ha impedito loro di esercitare il ministero più importante: «Percorrevano il quartiere – ricorda padre Gabriele Ferrari – mentre la porta della loro casa era sempre aperta. (...) La gente le amava, perché sentiva che quelle sorelle erano vicine a loro nei momenti difficili, conoscevano la loro sofferenza e insieme ne condividevano la vita». Fino a perderla, come tanti altri che prima e dopo di loro sono morti in Burundi. Sono i nuovi martiri che papa Francesco ci indica perché la nostra testimonianza si liberi dalla tiepidezza e dalla mediocrità, per cui ci sentiamo a posto per il poco che facciamo. È un popolo enorme, perché «ci sono più martiri oggi che nei primi tempi della Chiesa », dice spesso Francesco. La mite e ferma testimonianza delle nostre tre sorelle ci incoraggia a non accomodarci mai con la mentalità del male e ad affrontarlo con l’unica forza capace di sconfiggerlo: la mitezza del cristiano, semplice come una colomba e astuto come un serpente.