Cinema. Bullismo, che fare? Genitori al bivio nel film "About Luis"
Una scena del film “About Luis” della regista Lucia Chiarla
Il tema del bullismo solitamente viene affrontato puntando i riflettori, giustamente, sui ragazzini che ne sono vittime. Ma con una interessante cambio di prospettiva, la regista Lucia Chiarla in About Luis gira la cinepresa sui genitori, presi contropiede dalla scoperta di avere un figlio bullizzato, raccontandone lo spaesamento e l’angoscia. E poi allarga il campo per dimostrare che il bullismo, ovvero la prevaricazione sui più deboli, è essenza stessa della società contemporanea.
Sono tanti i livelli di lettura del bel film About Luis, premiata alla 28ma edizione del Tertio Millennio Film Fest, organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo, che si conclude questa sera al Cinema delle Provincie di Roma. La pellicola ha vinto la Menzione speciale della Giuria interreligiosa e il premio della Giuria Nuovi Sguardi composta dagli studenti della Facoltà di Scienze della comunicazione sociale dell'Università Pontificia Salesiana. Miglior film del Tertio Millennio Film Fest è invece stato votato dalla Giuria interreligiosa Songs of slow burning heart della regista ucraina Ohla Zhurba sulla guerra nel suo Paese. Infine il premio della giuria Sncci va a Il mio compleanno di Christian Filippi.
About Luis è una produzione tedesca girata in Germania dalla regista italiana che, dopo essersi diplomata alla Scuola d’Arte Dammatica Paolo Grassi di Milano, vive e opera a Berlino dove si era fatta notare sceneggiando e interpretando il film satirico Bye bye Berlusconi. About Luis, è la sua opera seconda come regista, ed è stato anche applaudito alla recente Festa del Cinema di Roma, aspettando una distribuzione italiana. Che sarebbe meritatissima perché il film tocca una degli argomenti più urgenti della nostra società, come purtroppo dimostra la cronaca quotidiana.
La regista, che incontriamo a Roma, ci spiega come si sia ispirata, riadattandolo per il cinema con molte integrazioni originali, l’opera teatrale The little pony scritta nel 2016 dall’autore spagnolo Paco Bezerra che è un intenso e drammatico dialogo fra due genitori che scoprono che il figlio di 10 anni a scuola viene perseguitato dai compagni a causa del suo zainetto preferito, decorato con un unicorno di strass, tratto dalla sua serie animata preferita. Nel film, con una trovata narrativa intelligente, la regista trasferisce la pièce prevalentemente dentro al taxi guidato da Jens (Max Riemelt) dove lui e la moglie Constanze (Natalia Rudziewick) riescono a incontrarsi e a dialogare per brevi momenti nelle loro vite indaffarate per poter tirare avanti. Lui impegnato in lunghi turni notturni, sempre più in difficoltà a causa della liberalizzazione e della concorrenza delle piattaforme stile Uber, lei architetto che si trova a fare orari assurdi nella speranza di venire assunta nello studio in cui lavora. Un giorno una telefonata che arriva dalla scuola sconvolge la loro routine: loro figlio Luis è stato aggredito dagli amichetti a causa della stravaganza del suo zainetto considerato poco maschile. Il preside della scuola consiglia ai genitori di acquistarne uno nuovo più conforme agli standard, ma la proposta provoca nella coppia un profondo conflitto: Luis dovrebbe conformarsi o imporsi combattendo per la sua unicità? Il bambino non si vede mai, ma lo si sente nelle telefonate, mentre inizia una battaglia verbale fra i genitori fatta sensi di colpa e accuse di fronte all’impotenza di proteggere il figlio quotidianamente maltrattato. Gli eventi porteranno, dopo un evento drammatico che sarà la svolta della pellicola, alla riscoperta del proprio valore di famiglia.
«Ho mantenuto due elementi portanti del testo teatrale: l’assenza di questo bambino e il fatto che i genitori hanno lo stesso obiettivo, fare uscire il bambino da una situazione complessa, ma lo affrontano in maniera diametralmente opposta, polarizzandosi – ci spiega Lucia Chiarla - . La madre vorrebbe spingere il figlio a conformarsi, mentre il padre vuole che lotti per affermare la sua personalità. Riuscivo ad identificarmi con entrambi, e questo sviluppa nell’opera una grandissima empatia». L’attualità sempre più pressante del bullismo nelle scuole ha fatto decidere la regista di portarlo sul grande schermo, in quanto cartina di tornasole della nostra società: «Volevo parlare di bullismo perché è così intrinseco nella nostra società restando nei panni dei genitori senza entrare in quella pornografia della violenza esibita – aggiunge - . Ho trasportato tutto in cinema cambiando completamente dialoghi e prospettiva sociale. In questo entrava molto la situazione lavorativa dei genitori: i genitori stessi vivono delle situazioni di mobbing, perché il padre tassista vive il mercato della nuova mobilità ed ha costantemente l’ansia di perdere il lavoro, e lei è una libera professionista, non ancora arrivata dove vorrebbe, e viene sfruttata dal suo capo». Il taxi, aggiunge la cineasta, creava così uno spazio claustrofobico in cui i personaggi si incontrano «in questa continua fretta in cui viviamo tutti, la claustrofobia del quotidiano per cui cui siamo tutti con l’acqua alla gola. I due genitori non riescono a capire il figlio perché non riescono a stare al passo con tutte le problematiche che li inseguono».
E’ tutto fuori controllo, anche nella scuola di Luis, dove si bada alle apparenze e si preferisce colpevolizzare la vittima. «Una scuola che non riesce a prendersi la responsabilità – spiega Chiarla -, perché la scuola stessa ha paura di ammettere il problema, e dà la responsabilità ai genitori o la addossa al bambino stesso e ai suoi comportamenti. Il bullismo è un problema globale: «Sicuramente è un problema globale nelle scuole, nel lavoro e, sempre più evidente, nella politica dove vediamo personaggi che si insultano a vicenda bullizzandosi. Sparano commenti personali per creare la dinamica del branco e individuare un nemico che la pensa diversamente”. Il bullismo è intrinseco al sistema e funzionale alla società, sostiene la nonna del piccolo Luis in un lucido e disincantato monologo. «In questa società così competitiva hai bisogno di avere persone che vincono e persone che perdono – chiarisce la regista e sceneggiatrice -. Se non ci fossero le persone che perdono la società non andrebbe avanti perché quelli che hanno paura di perdere, cascano nella rete dello sfruttamento e, in questo sistema capitalista, straproducono sempre più sfruttati». Il finale aperto, però, porta speranza. «Quello che è importante è che loro due si sono ritrovati, l’unico modo per salvare il figlio è di riconnettersi e di ricreare i ponti, i due decidono di restare insieme. L’unica cosa che possiamo fare in qualunque situazione è ricreare unità. Loro si sono allontanati a causa dello stress e neanche se ne sono accorti. Luis è salvifico in qualche modo perché attraverso il dramma loro due sono tornati a guardarsi».