Agorà

Basket & fede. Quando Kobe andava a scuola dalle suore

Antonio Giuliano venerdì 29 aprile 2022

Il piccolo Kobe Bryant con gli amici di Reggio Emilia

Prima del tragico schianto, il 26 gennaio 2020, Kobe Bryant era a Messa con sua figlia. Come ogni domenica. Perché non viene mai ricordato abbastanza ma l’ex fuoriclasse del basket Nba, morto a soli 41 anni, custodiva dentro di sé il dono della fede cattolica. Se non prendiamo in considerazione questa dimensione continueremo a tratteggiare l’identikit di una leggenda della pallacanestro solo come un uomo prigioniero del suo ego e del suo professionismo maniacale. Mentre sappiamo, perché l’ha confidato lui stesso più volte, che la fede lo aveva salvato nei momenti più bui della sua vita. Sia quando per le sue infedeltà aveva rischiato di mandare in frantumi il matrimonio con sua moglie Vanessa, procurandole anche un aborto spontaneo per le tensioni di quel periodo. E sia quando dovette fare i conti con l’accusa di stupro (poi archiviata): «Avevo venticinque anni. Ero terrorizzato. L’unica cosa che mi ha aiutato davvero durante quel processo sono cattolico, sono cresciuto come cattolico, i miei figli sono cattolici - è stato parlare con un sacerdote. E lui mi disse: “Dio non ti darà nulla che tu non possa affrontare, e ora è tutto nelle sue mani. È una cosa che non puoi controllare, quindi lascia stare”. E quello è stato il punto di svolta».

Un ulteriore riscontro dell’educazione ricevuta da Kobe arriva adesso da un libro scritto da un suo amico d’infanzia, Christopher Goldman Ward, nel periodo in cui il piccolo Bryant ha vissuto in Italia. Prima infatti di diventare un campione di fama mondiale, Kobe dai sei ai tredici anni ha vissuto nel nostro Paese. Per via di suo padre Joe, cestista professionista che ha vestito le canotte di Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia. In Italia ha imparato a leggere e scrivere e anche a tirare canestro. E non ha mai dimenticato quegli anni. Un passato di cui andava fiero, come testimoniano i nomi delle figlie: oltre a Gianna Maria (scomparsa con lui a soli 13 anni), Natalia Diamante, Bianka Bella e Capri Kobe. E poi la bellezza dei nostri luoghi, il tifo per il Milan, gli amici che aveva lasciato e che spesso tornava per riabbracciare. Un mondo di ricordi che affiora ora anche in questo volume Il mio Kobe. L’amico diventato leggenda (Baldini + Castoldi, pagine 158, euro 17). L’autore, Ward, nato a Varese, da padre americano e madre italiana, racconta il periodo vissuto insieme a Reggio Emilia e un legame rimasto nel tempo. Aveva 11 anni quando in palestra arrivò quel «mingherlino» di un anno più piccolo ma che tutti già descrivevano come un fenomeno del basket. Un ragazzino così determinato, che non aveva dubbi sul fatto che un giorno avrebbe calcato i parquet dei sogni a stelle e strisce. Così come poi fece nel 1996 esordendo con i suoi Lakers, tra la meraviglia e l’orgoglio dei suoi amici italiani di un tempo a cui non sembrava vero fosse proprio il loro Kobe in Tv con la canotta gialloviola. Quante volte, ricorda Ward, si erano sfidati tra di loro in interminabili uno contro uno. Non solo a canestro, ma anche ai migliori videogiochi che impazzavano negli anni Ottanta. E poi i tanti pomeriggi a casa Bryant a Reggio Emilia, dove bastava varcare la soglia per respirare aria statunitense.

Un capitolo curioso, che sembra incidentale, ma si rivela invece significativo, è quello del piccolo Kobe a scuola dalle suore. Perché come annota Ward: «Pam e Joe (i genitori di Kobe, ndr) volevano per i figli non solo un’istruzione ma anche un’educazione ai valori cristiani e scelsero l’istituto San Vincenzo de’ Paoli». È qui che la futura star del basket maturò una solida preparazione culturale oltre a una certa sensibilità per le cose della vita. Mostrava già da bambino un’attenzione per i più deboli e sin da piccolo si vedeva che era un vero perfezionista. Un culto della disciplina quasi ossessivo su cui ha costruito la sua fantastica carriera: cinque titoli Nba con la sua unica squadra, i Los Angeles Lakers, due ori olimpici e una serie impressionante di record personali. Eppure anche il “Black Mamba” (il soprannome che lui stesso si era scelto) aveva dovuto riconoscere che i superuomini non esistono. Prima o poi facciamo tutti i conti con le nostre debolezze. Ma nel momento più duro Kobe aveva colto il segreto del cristianesimo, il pentimento e la forza per rialzarsi. E quella mattina era a Messa ancora una volta per ringraziare Chi gli aveva ridato la gioia di vivere togliendogli dal cuore pesi che sembravano più grandi di lui.