Il nuovo album. «Letter to you», ecco l'ultimo viaggio musicale di Bruce Springsteen
Bruce Spingsteen torna con «Letter to you»
Se mai fosse servita una riprova delle altezze cui è capace l’arte di Bruce Springsteen, ecco che la fornisce il suo ritorno alle sonorità ruvide ma al contempo raffinate dell’amata E Street Band per il disco “Letter to you”. E non è banalmente “solo” questione di (elevata) qualità musicale. Perché “Letter to you”, in uscita mondiale il 23 ottobre, è soprattutto viaggio che scuote e commuove, che urla e sussurra, che mentre ci spinge a ballare dopo averci reiniettato fiducia nel vivere, ci squarcia l’anima svelando comuni, dolorose fragilità.
Ancora una volta il Boss licenzia un album quasi necessario all’ascolto, da tanto è ferocemente attuale: nella misura in cui scrivendo di sé, dell’invecchiamento, della paura di fronte all’ultima chiamata (nonché del senso etico d’una musica intesa a terapia e ancora di salvezza), Springsteen alla fine disvela prospettive e timori di tutta l’umanità odierna. Ossia dell’uomo di era-Covid, un uomo le cui certezze si sono capovolte, se non dissolte, nel giro di pochi mesi.
Sin dal primo brano, si coglie che “Letter to you” lascerà segni profondi. Perché “One minute you’re here”, lirico e meditabondo, è canto della solitudine dell’esistenza: fotografata tra ricordi struggenti e dolorose prese di coscienza, sottolineata da versi espliciti quali “Pensavo di sapere chi sono, ma mi sbagliavo / Un minuto ci sei, un minuto dopo non esisti più”.
Ma non si creda che la profondità di necessarie consapevolezze il Boss la sfumi nel pessimismo: anzi. Chè poi “The power of prayer”, il potere della preghiera, è quasi una risposta al brano di cui sopra: col suo finale danzante di certezza, prim’ancora che speranza, di fronte alle chiamate del “buttafuori” con la falce.
La E Street Band nel Cd entra in gioco al meglio dalla seconda traccia, quella che all’opera dà titolo: un pezzo solido e teso che sintetizza la volontà di dirsi in modo ruspante e quasi istintivo, dentro un inno alla vita insieme fiero e fragile per il quale il “tu” del titolo è sia l’amata, che gli altri, che un Dio.
Un Dio, sì. Perché se nello Springsteen del 2020 c’è la saporosa fede laica dell’amor carnale (quello puro) che esplode in “Burnin’ train”, c’è anche quella esplicita: detta in un modo che sarebbe piaciuto a Johnny Cash, visto che “If I was the priest” parla d’un Cristo che chiama alla lotta contro il malaffare i disperati, “perché già troppa brutta gente gira qui intorno”, col protagonista della canzone che accetta la sfida e rilancia la fede in modo sbruffone, gagliardo, insomma molto americano nonché d’umanità terrigna, un’umanità concreta magari anche sbandata o affaticata ma sempre ben salda nei valori, che dilaga nel Cd sino a farsene coprotagonista assieme alla musica e al suo valore etico.
Davvero, il percorso di “Letter to you” prende di continuo e sempre spinge ad aprire occhi, cuore e prospettive. Cambia poco, che ci si soffermi sul canto cinematografico d’una donna sola che religione, giustizia e scienza non potranno mai aiutare se non tornando a sporcarsi le mani con la realtà (“Janey needs a shooter”), o si preferisca aderire all’inno alla vita, nonché alla musica come condivisione, di “Ghosts”.
Ma attenti, che il vero finale di “Letter to you” non è quello che chiude il disco. Infatti, per quanto “I’ll see you in my dreams” segni sia la chiusura del del viaggio ricentrandolo sull’esigenza del Boss di guardarsi indietro ma contemporaneamente pure attorno e dentro, che la sua vigorosa e definitiva affermazione d’una vita che vale ben oltre gli orizzonti fisici, “Perché la morte non è la fine”, il vero fulcro di “Letter to you” e il suo finale ideale si collocano fra il centro politico “Rainmaker” e quello etico “House of a thousand guitars”.
Con “Rainmaker”, che parla d’un ciarlatano mago della pioggia (leggi Trump), Springsteen verga un gioiello d’invettiva torva e rabbiosa però anche capace d’analisi necessarie quando indaga su quali drammi, abbiano spinto tanti a credere in false promesse. Mentre la casa delle mille chitarre, di nobiltà melodica degna del miglior songbook Usa, è poesia smagliante quanto struggente: vera e propria dichiarazione d’amore per quanto regala la musica.
L'ultimo album del Boss - Cover Photo Danny Clinch
In “House of a thousand guitars” il Boss canta “Il clown assassino ha rubato il trono, ma forse la verità verrà fuori da qualche baretto di periferia quando accenderemo le luci della casa delle mille chitarre / L’amareggiato e il disilluso si sveglieranno, allora lascia da parte i tuoi turbamenti, andiamo dove la musica non finisce mai: fratelli e sorelle dovunque, diventeremo sempre di più… finché non accenderemo la scintilla che accenderà la casa delle mille chitarre”.
Lascia senza fiato, questo brano che canta del perché vale la pena far musica, del perché farla “alla Springsteen”, di quanto essa può dare all’uomo e al mondo -come i fan del Boss ben sanno. Lascia senza fiato e coi brividi a pelle, e ridà il senso della grandezza di “Letter to you” come di quella di Bruce Springsteen. Del suo nuovo Cd sarebbe dunque il vero, degno finale, se lui fra i talenti che possiede non annoverasse pure quello d’aver a dispetto la retorica. E dunque impedisce all’ascolto di cadere nel baratro della commozione facendo ripartire il viaggio, appunto, con un’invettiva contro Trump.
Anche se poi, a dirla tutta, in qualunque ordine si voglia ascoltare “Letter to you” o riflettere sui suoi contenuti, beh, credete: pensiero, energia ed emozione andranno sempre e comunque di pari passo, da tanto ogni tassello di questo puzzle springsteeniano è riuscito, sentito, capace di parlarci di noi e di quello che siamo oggi.