Per favore, a due mesi dal via di Brasile 2014, a tutti gli allarmisti sparsi nei cinque continenti e soprattutto agli indignados locali del “no-Mundial” chiediamo una domenica di tregua per ricordare, una volta di più, che il calcio, anzi
o futebol,, da San Paolo fino al più remoto villaggio dell’Amazzonia, è qualcosa di più di uno sport. «Oconhecimento do Brasil passa pelo futebol», la conoscenza del Brasile passa per il calcio, è un aforisma dello scrittore brasiliano - di Pilar - José Lins do Rego Cavalcanti. Romanziere noto per il ciclo della “canna da zucchero” e amante del futebol che morì nel 1957, un anno prima che in Svezia cominciasse la corsa alla cinquina della Seleçao “pentacampeon”. La frase di do Rego Cavalcanti campeggia all’interno dell’Estadio Municipal Paulo Machado de Carvalho, per la gente di San Paolo semplicemente il Pacaembu, la vecchia casa del Corinthians e dal 2008 sede del multimediale Museu do Futebol. Un gioiello (costato 15 milioni di euro) sorto proprio sotto la Curva. Un affascinante tempio laico della memoria di cuoio, al quale i bambini delle scuole incolonnati attendono il loro turno d’entrata in un religioso silenzio che quasi stona con il ritmo frenetico e sonoro di questa megalopoli in cui si muovono ogni giorno più di 11 milioni di paulisti (di 70 diverse etnie).Ogni anno arrivano a San Paolo oltre un milione di turisti (1,3 milioni le presenze registrate nel 2013, il 14,7% stranieri) e una metà, circa 600mila sono i visitatori («spesso neanche amanti del futebol», sottolinea la giovane guida) che passano e restano incantati dagli spazi del Museu. Ad accoglierli c’è un Pelè virtuale che saluta in tutte le lingue, prima di far accedere gli “ospiti” nel teatro dei sogni verdeoro che contempla anche qualche incubo, come il
Maracanazo. La finale mondiale del 1950, al vecchio Maracanà (ora dimezzato dei 150mila posti originari) persa dal Brasile contro l’Uruguay di Schiaffino. In un piccolo “cinema”, il dramma sportivo viene rivissuto in un filmato di pochi minuti che puntualmente commuove, anche i non-brasiliani. Così come non si resta indifferenti ai 1.500 scatti in cui la storia sociale del Brasile si innesta a meraviglia a quella del
futbol bailado e dei suoi piccoli e grandi eroi esemplari. A cominciare dal pioniere Charles Miller, scozzese di madre brasilera che tornò da Edimburgo con due palloni che vennero subito gettati in campo il 14 aprile 1895: calcio d’inizio del futebol nel match tra i funzionari britannici e gli indigeni della società del Gas. I bambini qui guardano, giocano, consultano i libri della biblioteca interna al museo. Si osserva, ipnotizzati dagli schermi, in cui a rullo scorrono le immagini di cento anni di scarsa solitudine vissuta dalla
torcida incendiaria degli stadi del Brasile e di questa San Paolo che vanta ben 9 impianti esclusivamente dedicati al calcio.Solo così si spiega come dalla favela più remota dello stato paulista, fino alle colline della movida di Vila Madalena, non esista un angolo dove, tra una capirinha e l’altra non si mastichino churrasco e pallone.Nella bodeguita jazz di Sao Cristovao ci sediamo nell’angolo che di solito occupava un avventore speciale, il “Dottore” Socrates, l’uomo che nello spogliatoio del Pacaembu fomentò l’unica vera rivoluzione pacifica che si sia mai vista sul fronte del calcio: la “Democratia Corinthiana”. I camerieri che dribblano i tavoli con finte alla Manè Garrincha, sanno tutto di quella Democratia come del calcio che si gioca nel resto del mondo, degnamente rappresentato da gagliardetti e bandiere dei club, dall’Angola alla Ternana. «Naturale. Aqui é o país do futebol», dice il cameriere Roberto tifoso corinthiano che ricorda con somma riverenza la figura de «O Magrao» Socrates che non rifiutava mai il bicchiere della staffa e per questo la cirrosi epatica lo ha fatto volare anticipatamente (a 57 anni) nel mondo dei più. «Ma questi sono discorsi che non hanno niente a che vedere con il calcio...», sbuffa Ricardo Palmieri, pubblicitario e intellettuale con radici pugliesi. Con Socrates, Ricardo condivideva un buon bicchiere e quei libri pericolosi (Neruda, Borges e Vargas Llosa) che durante il ventennio buio (1964-’85) del regime militare la polizia politica strappava dalle mani dei sovversivi che si ritrovavano reclusi e torturati in quelle celle che oggi sono le sale del Museo della Libertà. Un luogo di tristezza, distante dall’«alegria do povo» del Museu do Futebol, dalla gloria della Seleçao e dal sorriso giovane di Neymar che fa sognare un popolo, nel bene e nel male, da sempre “nel pallone”.