La mostra. Georges Braque, il poeta della forma nata dal nulla
Lui è il poeta, Picasso invece resta il tragico vitalista che fino all’ultimo combatte la morte. Braque fu Apollo che pensa il colore e la forma sulle corde della lira, senza cadute estetizzanti, mentre l’altro incarna il distruttore che vuole squartare il toro nell’arena come farebbe un feroce Dioniso. Solo Braque avrebbe potuto dire, come si legge in Pensieri e riflessioni sulla pittura (1917), che il soggetto non è solamente l’oggetto che appare rappresentato in un quadro, ma «è l’unità sorgiva, il lirismo che discende dai mezzi usati». Una affermazione che, scrive Michele Dantini, anticipa in lui quella diffidenza verso il genio che finisce per costituirsi in «elogio della modestia».
I poeti che si ascoltano mentre declamano le loro poesie perdono la concentrazione che sola può raccogliere l’attimo fuggente della poesia, il soffio dello spirito, che nulla ha di romantico perché lo spirito, avrebbe detto Robert Desnos, è libertà e amore insieme uniti nel comporre il gesto che lascia un segno misterioso, difficile da decrittare ma vero, sulla carta o sulla tela.
Lo spirito, non anzitutto in senso religioso, bensì quello che nell’afflato del cuore attinge l’intuizione che trasporta l’artista dentro ciò che sta creando. Questo spirito che è pensiero non meno di quello razionale, l’esprit che anche René Crevel vedeva come momento alato della libertà da cui nasce una nuova realtà che trasporta in alto anche i sensi, li eleva oltre l’appetito del corpo sebbene in essi lo sublimi. Così, sempre negli aforismi, Braque dice laconico che «il pittore pensa in forme e colori».
Dantini, nel catalogo della mostra che Mantova dedica a Braque (edito da Electa, utile più per i testi e i documenti che per le immagini), sostiene che una simile affermazione abbia creato imbarazzo in chi lo ascoltava, poiché chi lo conosceva era poco abituato alle formule teoriche da parte di Braque. E in effetti, più che il teorico Braque in quegli aforismi egli appare come uno scalpellino romanico, un incisore di roccia, uno che non si perde nei vezzi dell’estetica ma raggiunge la sintesi primitiva come un antico medioevale, uno che la regola ce l’ha scritta nel suo fare, poesia e tecnica, mestiere e bellezza.
Braque è artista che si sposa alla perfezione con l’esortazione con cui, in quello stesso 1917, Pierre Reverdy detta la sintesi dell’atto creativo: «di un nulla fare qualche cosa». È, o potrebbe essere, una definizione esatta di miracolo. Il contrario di ciò che, apparentemente, faceva in quegli anni Duchamp: il nulla come opera d’arte, l’oggetto banale come coagulo del pensiero che allora prefigurava il futuro del-l’arte: n’importe que. Niente. A Braque, che pure ebbe a che fare con Duchamp, non sarebbe potuto passare nemmeno lontanamente per la testa. E la prima contestazione viene dalle immagini che realizzò per Reverdy e i suoi pensieri estetici, non un commento ma un confronto aperto, parallelo, talvolta intrecciato, ma libero da ogni obbligo ancillare dell’immagine rispetto al testo. Come scrive Dantini, riconoscere questa prossimità che non è sottomissione né identificazione, aiuta a sganciare Braque «da una tutela letteraria segretamente pontificale». Perché di pompa magna in Braque non se ne trova punto e il ricorrere della figura-forma dell’Oiseau, colui che vola, che ha l’aspetto di un’uccello ma fin dall’antichità è immagine dello spirito, diventa una sorta di poetica.
L’incontro di Braque e della letteratura non è affinità elettiva, ma esercizio creativo dei mezzi. E il suo lavoro di incisore e litografo ha in sé anche il “fatto a regola d’arte” degli artigiani. La sua vasta opera di illustratore non segue mai un percorso didascalico, è piuttosto una forma idiomatica del tema o della narrazione; una sorta di symbolon che rimanda ad altro (che accompagna) e torna con costanza in opere molto diverse tra loro. Ma quel che si deve prima ricordare è che, in un percorso a tratti simile a quello di Matisse con i papier découpés (in mostra vediamo anche uno dei suoi capolavori a stampa, il libro Jazz, voluto e stampato da Teriade), anche Braque tocca l’apice poetico nel dopoguerra e i due mi sembrano i maggiori poeti del colore e della forma all’epoca.
Orfico, con una lontana ascendenza nei cieli celtici, è il grembo in cui viene forgiato il segno che rende aereo e al tempo stesso mitico il simbolo dello spirito che Braque ripete alternando strati e sovrapposizioni di colori tenui e quasi abrasi; ludico e panico l’orizzonte, sempre aureo ma più plastico, di Matisse, che emerge con rarefatta e già orientale (in senso iconico-cristiano) essenzialità di spazio-forma, fino all’esperienza mistica di un nirvana del tutto privo di ombre e paradisiaco come riflesso dell’origine.
Di fatto, a parte un collage-scultura, un grande arazzo, alcune ceramiche, tre studi per il soffitto del Louvre, il bozzetto per la cappella della Fondazione Maeght, la mostra è fatta quasi per intero di libri d’artista e opere a stampa realizzati nel dopoguerra. Una esperienza tutt’altro che scontata o minore, perché questo ambito, come si può ben capire percorrendo gli spazi del grande salone di Palazzo della Ragione, è un luogo maggiore della creatività di Braque, con alcune opere di una raffinatezza esecutiva al torchio che unisce impressioni a secco e a colori (non tutte riprodotte in catalogo).
Splendida la serie di forme vegetali e nature morte per la Lettera amorosa di René Char del 1963; dovendo illustrare L’ordre des Oiseaux del grande Saint-John Perse, Braque va a nozze e ci dona forme che talvolta non sembrano aver più niente di naturale (non dico di naturalistico), sagome nere con cui destruttura le astratte posizioni che gli uccelli assumono nel volo visto da terra, un po’ come le evoluzioni nell’aria delle ballerine dell’opera offrono la più spirituale e mistica delle rappresentazioni del corpo; così, per Si le Mourais là-ba di Apollineaire il pensiero della forma diventa propriamente “tagliato” e “incollato” sulla carta, sull’idea di un papier découpé; solo con La discesa agli inferi di Marcel Jouhandeau nel 1961, Braque si abbandona a stranissime deformazioni di forma-colore, che pur mostrandosi come maschere dell’oltretomba, sembrano in verità tomografie della psiche dello scrittore.
Poiché la mostra s’intitola “Braque visà- vis Picasso, Matisse e Duchamp”, dopo i suoi libri d’artista corrono in successione quelli di epoca precedente di Max Jacob e André Derain, di Malraux e Léger, di Ovidio e Picasso, di Mallarmé e Matisse, e quello – il più bello e vitale fra tutti questi – dove Sonia Delaunay accompagna Blaise Cendrars nel testo La prose du Transsibérien et de la petite Jehanne de France del 1913. Questa carrellata ci fa comprendere quanto i francesi, anche nel libro d’artista, siano stati maestri d’arte e di poesia. E Braque con la sua declinazione visiva dell’Oiseau ne ha distillato e sublimato la migliore l’ispirazione.
Mantova, Palazzo della Ragione
Braque vis-à-vis
Picasso, Matisse e Duchamp
Fino al 14 luglio