INTERVISTA. Boss senza Dio
Incontriamo Giusto Sciacchitano, sostituto procuratore nazionale antimafia, a Palermo. Parlare di legalità, di cultura, di Sicilia, ci permette di entrare subito in sintonia. Classe 1940, palermitano, si racconta con semplicità: gli anni in seminario prima a Palermo e poi a Roma; gli studi filosofici alla Pontificia Università Lateranense, la laurea in giurisprudenza. L’entrata in Magistratura nel 1969, il lavoro in Procura a Palermo dal 1972 al 1993, «il lavoro», ci tiene a dire, «con Giovanni Falcone, prima della nascita del pool» e, dopo le stragi, da diciotto anni, a Roma, prima al ministero degli Esteri e a tutt’oggi, il delicato impegno come sostituto procuratore. Dove si trovava il giorno della strage di Falcone?«Vent’anni sono un arco di tempo lunghissimo e brevissimo, secondo cosa si può ricordare o cosa ti rimane impresso nell’animo. Quel giorno ero tornato a casa dall’ufficio e mi colpì l’ululato continuo di sirene; subito dopo una telefonata della Questura e una macchina mi venne a prelevare. Più tardi mi trovai con Paolo Borselllino, da soli, davanti alla salma di Giovanni Falcone in un silenzio profondo e lunghissimo, ed ebbi poi la sensazione che in quei momenti Paolo si sentisse investito di una responsabilità ancora più grande di quella che aveva vissuto fin allora. A tarda sera arrivarono il ministro della Giustizia e il ministro dell’Interno; il momento politico era molto teso e denso di preoccupazioni e nell’incontro, cui partecipai con pochi colleghi, mi sembrò che il governo intero non sapesse bene come affrontare la situazione che emergeva da quella strage».E il 19 luglio, per quella di Borsellino?«Mi trovavo a Washington per un processo contro la mafia siciliana che aveva importato attraverso gli Stati Uniti, 600 chili di cocaina in Sicilia. All’udienza, commemorando Paolo, ricordai la famosa frase del presidente Kennedy: "Non chiedete quello che l’America può fare per voi, ma quello che voi potete fare per l’America", e conclusi che Borsellino aveva speso la sua vita dimostrando quello che si può fare per il proprio Paese».Quale è stato l’inizio del suo lavoro con Falcone?«Ho avuto la fortuna di iniziare con lui (io pm e lui giudice istruttore), nel 1980, i primi tre processi che avrebbero segnato il metodo nuovo delle indagini contro la mafia, e con il quale si può dire che è nato "il giudice Falcone", intendendo dire che Giovanni Falcone cominciò allora ad avere risonanza internazionale».Quale era questo "metodo Falcone"?«In poche parole era costituito da tre cardini: Il primo era la sua intuizione della unicità della mafia; il secondo è stato quello di sviluppare le indagini bancarie e patrimoniali unitamente a quelle più propriamente penali; il terzo la necessità della collaborazione giudiziaria internazionale. Oggi questi tre cardini possono sembrare una ovvietà, ma così non era negli anni ’80. Mettendo insieme tutti gli elementi, le indagini fecero un salto di qualità che, negli anni successivi, consentirono di avere una conoscenza approfondita della struttura della mafia e di fare condannare capi e gregari di Cosa nostra».
Ripensando alle stragi del ’92 quali sono i suoi sentimenti?«La storia del cristianesimo dice che il sangue dei martiri è seme di nuove testimonianze di fede. Da quelle stragi, come da una sorgente vitale, sono sorti e vengono incrementati numerosi rivoli che ancora oggi portano linfa al terreno di coltura di tutte le iniziative antimafia: una società civile più attenta a rifiutare ogni collegamento mafioso, una più efficace legislazione per affrontare, sotto tutti gli aspetti (economici, sociali, culturali), il fenomeno criminalità organizzata. È maturata così, nella società e anche nella Chiesa, una mentalità di rifiuto alla mafia».Perché dice anche nella Chiesa?«Perché i mafiosi si sono sempre accreditati come buoni cristiani: si pensi che il loro giuramento si fa su santini o addirittura sul Vangelo; ma quel giuramento li lega ad azioni di morte, e non di spiritualità. Sono note le processioni che si fermano davanti alla casa di un boss, o addirittura le riunioni mafiose all’ombra di un santuario in Calabria. Troppo spesso davanti a queste mistificazioni, gli uomini di Chiesa sono rimasti silenti. Poi è venuto il grido forte e profetico di Giovanni Paolo II ad Agrigento che quasi imponeva ai mafiosi di convertirsi. Oggi, finalmente, anche la Chiesa non assiste passivamente a queste forme di falsa cristianità».Lei ha partecipato a marzo al "Cortile dei Gentili" tenutosi a Palermo…«Il cardinale Ravasi in quei giorni ha colto perfettamente che la mafia è l’antitesi di ogni spiritualità e di ogni cultura, e la Chiesa, sull’esempio di padre Puglisi, può svolgere un ruolo determinante per sviluppare etica e legalità. La mafia è essenzialmente incultura e quindi si deve combattere soprattutto con la cultura».