Bose. Cattedrali e prossimità: ripensare il centro per ripensare la comunità
La cattedrale di Clermont Ferrand (WikiCommons)
«Ci sono ragioni teologiche ed ecclesiali, oltre che storiche e culturali, per interessarci alla cattedrale. Ma nella situazione attuale dobbiamo forse porci molte domande e accettare di non avere sempre delle risposte». Le domande evocate da Enzo Bianchi in apertura del XVI Convegno liturgico internazionale di Bose «Architettura di prossimità. Idee di cattedrale, esperienze di comunità», conclusosi ieri, sono arrivate. E con loro anche una serie di tracce per un dibattito che non interessa non solo la comunità cristiana ma l’intera società contemporanea.
«Tra i temi emersi - commenta Giancarlo Santi, primo direttore dell’Ufficio nazionale dei beni culturali della Cei e cofondatore dei convegni di Bose - ce n’è uno importante e delicato ed è quello della prossimità, dai confini incerti: può voler dire apertura e solidarietà, ma anche superamento di una visione per cui la chiesa è un monumento chiuso nella sua storia. Cosa significa ad esempio prossimità per quelle cattedrali italiane isolate da un fiume di turisti e collocate in centri storici sempre più anziani e spopolati? Sono due fatti che convivono e svuotano dell’antico senso popolare e religioso le cattedrali. Non solo, le nostre cattedrali hanno sofferto della crisi dell’autorità vescovile attraversata dalla Chiesa italiana negli anni 60 e 70, accompagnata per altro da una discreta disaffezione da parte dei vescovi per le cattedrali. Ne nasce l’esigenza di un ripensamento attento e complesso della cattedrale innanzitutto, come ha sottolineato nelle sue conclusioni Albert Gerhard, nel suo significato ecclesiale. Sono scelte di natura pastorale, con precise ricadute sul piano architettonico».
C’è, in un certo senso, una analogia tra il cambio di prospettiva liturgica successiva al Vaticano II, con la trasformazione della polarità e delle dinamiche all’interno dello spazio sacro, e la necessità di ripensare polarità e dinamiche tra cattedrale, città e diocesi. «L’appello va innanzitutto rivolto ai vescovi, che hanno il compito del discernimento complessivo; gli architetti sono chiamati a reinterpretare e tradurre. Non è un caso che la scelta della monumentalità per la cattedrale di Evry sia stata del cardinale Lustiger, che aveva letto le necessità di quell’agglomerato urbano».
Sul fronte dell’adeguamento liturgico delle cattedrali ritroviamo dinamiche simili a quelle delle parrocchie con un sostanziale salto di scala su tutti i livelli. «L’intervento però non cambia: entrambi nascono dal profondo, non sono semplici decisioni prese dal parroco o dal vescovo, ma coinvolgono tutta la comunità nel modo di celebrare. Perché questi interventi mettano radici è centrale che la comunità torni a riflettere sull’importanza della liturgia. La diocesi deve essere invitata nella sua interezza e in modo prolungato nel tempo. Senza avere fretta. Questo crea un clima sereno e consente un intervento qualificato anche in contesti impegnativi. Ma la complessità di una cattedrale non è diversa da quello di una chiesa parrocchiale: l’analisi del contesto e dei problemi aperti, gli obiettivi, le esigenze concrete non sono davvero diversi».
D’altra parte può apparire contrastante abbinare cattedrale, a cui istintivamente si tende a abbinare un’idea di centralità attrattiva e monumentale, a prossimità, dove sembra essere più forte l’elemento di uscita e di famigliarità. Due elementi che però la discussione ha ricomposto attraverso una modulazione delle prospettive. «Mi sembra - commenta Andrea Longhi, architetto, docente al Politecnico di Torino e membro del comitato scientifico dei Convegni liturgici internazionali - sia emerso che ogni comunità cristiana ha bisogno di diverse scale, diverse dimensioni per vivere in pienezza tutte le dimensioni del celebrare, della comunione fraterna, della solidarietà. Ridurre l’esperienza a un unico modello rischia di impoverire la ricchezza delle manifestazioni della fede e degli stili di vita».
La polarità è persistente, anche dal punto di vista storico. «In questo senso la relazione di Sible De Blaauw ha mostrato come fin dagli inizi della fase pubblica del cristianesimo le domus ecclesiae convivano con una dimensione politica per cui la prossimità in termini di fraternità è vissuta anche in termini di istituzioni. Mi pare che la necessità di tenere assieme le scale diverse sia l’esito principale del convegno».
Nel gioco dei contrasti è entrata la possibilità di pensare l’architettura sia come edificio e struttura, sia come motore di processi sociali, due modi distinti e convergenti che possono aprire nuovi spazi di riflessione, ad esempio in ambito pastorale. «Noi tendiamo a considerare l’architettura come manufatto in un luogo, ma spazio e tempo vi convergono. Spesso comunichiamo ancora che l’edificio chiesa è ciò che costruisce la comunità, ma è il processo dell’edificio chiesa a costruire la comunità. Lo sforzo è ricondurre a profili istituzionalizzati e gerarchizzati, nel senso più profondo, in cui ciascuno possa esprimere in uno specifico servizio la propria necessità di partecipazione. È importante incanalare questa istanza fondativa verso una condivisione non spontaneista, non ingenua, organizzata attraverso un pensiero. E in questo il ruolo dell’architetto è fondamentale».
Gerarchia, intesa come struttura ordinata di responsabilità è una delle parole che sono tornate più volte nel convegno. «La cattedrale - ricorda Luigi Bartolomei, ricercatore presso l’Università di Bologna e presidente del Centro studi Cherubino Ghirardacci - ne istituisce una molto precisa, evidentemente di ordine spirituale. Una gerarchia che implica il confronto e introduce il principio di autorevolezza della tradizione. Il vescovo per i cristiani è il “presente” degli apostoli. Come però la modalità con cui questa autorevolezza si esplica è differente tra i vari vescovi, e questo interviene sull’interpretazione della cattedra, segno fisico del carisma episcopale. È un tema quindi architettonico, evidente nei diversi adeguamenti che evidenziano una pluralità. Ogni interpretazione spaziale risponde alla visione della committenza e offre l’immagine parlante del ruolo episcopale».
Accanto al tema ecclesiologico c’è «l’idealità della liturgia e dello spazio di culto. Il quale, invece, si incarna in realtà specifiche, frutto della tradizione storica. Noi viviamo in un mondo profondamente stratificato in cui agiamo in spazi che sono depositi di senso. Per questo intervenire in una cattedrale è profondamente diverso da un’altra. La cattedrale è uno spazio eminenziale, sintesi di molteplici vettori. Per questo non si può intervenire con ricette preconfezionate. Ma attenzione: è soprattutto un problema di spazio. L’architetto non è una “matita” tra diverse componenti, l’architetto è prima di tutto occhio. Le cattedrali sono un corpo dato, e questo finisce per connotare anche l’azione rinnovata. Una buona lettura preventiva dello spazio è già progetto».