Agorà

IL CASO. Il bosco magico di Manuel

Lucia Capuzzi martedì 7 agosto 2012
​La melodia del “pajaro pinto” si insinua nel groviglio di alberi e invade il bosco di Sant’Elena. La luce dell’alba colora l’erba di un verde brillante, l’inconfondibile verde del Cile. Il paesaggio è magico. Manuel si interroga sulla bellezza che lo circonda e sulla forza che la governa. Poi si ferma ed esclama: «Avrei capito che era Dio se qualcuno me l’avesse presentato». A formulare questa frase è un bimbo di quattro anni, cresciuto senza genitori, allevato – si fa per dire – da un vecchio che chiama “nonno” e che sfoga sul piccolo le frustrazioni accumulate in un’esistenza miserabile. Cinghiate, botte, avanzi di cibo, silenzi ostili e rimproveri continui sono tutto quello che Manuel Antonio ha ricevuto dalla sua “famiglia”. In realtà, il bimbo non sa nemmeno se siano dei veri parenti o semplici estranei con cui si è trovato a condividere una baracca di un’unica stanza. Eppure Manuel nutre affetto per loro e per la vita, che pure sembra essere stata così ingrata con lui. Ribellandosi a un destino già scritto di rancore, rabbia, violenza, il piccolo combatte e vince la sua rivoluzione della speranza. Nel modo più difficile e coraggioso: lasciando la casa dove è cresciuto per rifugiarsi nel bosco, tra la natura che ama e da cui si sente amato. Una scelta folle e saggia allo stesso tempo, che lo porterà verso un futuro imprevisto e verso l’Italia, dove lo attende una famiglia adottiva. La trama del nuovo libro di Marcello Foa, Il bambino invisibile, appena pubblicato da Piemme, richiama, a tratti, le note surreali del realismo magico. Stavolta, però, si tratta di una storia fin troppo vera. È stato proprio quel bambino, Manuel Antonio Bragonzi – ora trentacinquenne – a raccontarla allo scrittore e giornalista, diventando coautore del libro. «Potrei dire che ci siamo conosciuti per caso – racconta Bragonzi ad “Avvenire” –. In realtà credo che sia stata la Provvidenza… Due anni fa, mi trovavo in un momento professionalmente difficile. Ero arrabbiato, con me stesso e con Dio. Poi, ho incontrato Marcello e abbiamo cominciato a lavorare al libro: è stata l’occasione per riprendere in mano me stesso e riconciliarmi con entrambi». La fede – intesa come l’ostinata capacità di conservare la speranza, anche in situazioni estreme – è il tema centrale del romanzo. Perché è il cuore dell’esperienza umana di Manuel. «La prima volta che la mia mamma adottiva mi ha portato a Messa, le ho domandato: “Le auto e le tv le fa l’uomo. Ma chi ha fatto gli alberi, gli animali, il cielo?”. Lei mi ha risposto: “Dio”. Per me è stato naturale dirle: “Va bene”. In fondo l’avevo sempre saputo. Me l’aveva rivelato la bellezza del bosco di Sant’Elena. Il mio percorso cristiano è iniziato laggiù». Lo dice con naturalezza Antonio – così ha scelto di chiamarsi da quando è arrivato in Italia –, eppure non è facile comprendere come un bimbo maltrattato possa coltivare una simile capacità di sperare. «Le faccio un esempio –aggiunge –: quando mio nonno mi frustava, cercavo di non pensare al dolore ma alla natura da cui mi sarei rifugiato appena avesse finito. Ora, quando uno dei miei figli si fa male, gli dico: “Pensa che bello quando la sofferenza finirà e potrai giocare di nuovo”. L’incrollabile speranza è il filo rosso che riunisce il piccolo Manuel all’adulto Antonio. Per contrasto, la totale assenza di una capacità di sognare, di credere, di immaginare il futuro, è il sentimento che imprigiona la gente di Sant’Elena, rendendola gretta, egoista, crudele. «È una società rurale, ancorata a un sistema feudale che legittima lo sfruttamento dei deboli da parte dei più forti», spiega l’autore, Marcello Foa. Sant’Elena è allo stesso tempo paese reale e metafora di tutti quelle comunità in cui la miseria estrema disumanizza l’uomo, privandolo della compassione. «Come inviato, mi è capitato di visitare molte zone del Sud del mondo dove la povertà non era solo una condizione materiale. Miseria e privazioni erano riuscite a togliere agli esseri umani la capacità di sperare». È questa la radice del male oscuro che dilania Sant’Elena. E a farne le spese sono le creature più indifese. I bambini, appunto. Considerati ancora, purtroppo, in molte parti di mondo, un fardello da sopportare quando non manodopera da sfruttare. «Se un individuo non contempla la possibilità di crescere, migliorare, costruire qualcosa, si abbruttisce. Manuel Antonio si è salvato perché non ha rinunciato alla speranza», afferma lo scrittore. Non è stato facile per Foa “mettersi nei panni” del piccolo Manuel. «All’inizio non riuscivo a trovare il tono giusto per raccontare la sua vicenda, tendevo ad “addolcirla”». Tanto che Bragonzi ha cestinato il primo capitolo scritto da Foa. «In fondo è stata una fortuna. Abbiamo parlato: ho capito il suo dolore. Per penetrarlo mi sono dovuto rifare all’esperienza vissuta a Beslan durante l’attacco alla scuola. Ero lì per seguire l’evento e ho avuto modo di vedere la disperazione allo stato puro, senza filtri. Grazie a questo, Antonio ed io abbiamo trovato una sorta di simbiosi che ci ha accompagnato fino all’ultima pagina».