«Il più piccolo dei Giosuè saluta il più grande dei Giosuè d’Italia»: così Averardo Borsi, giornalista d’idee radicali, non ancora direttore del quotidiano
Il Telegrafo, comunicava il 10 giugno 1888 da Livorno all’amico e conterraneo Carducci la nascita di un figlio di cui il poeta accettava di divenire, per procura, padrino di battesimo. Editorialista battagliero e polemico, crispino evoluto in giolittiano quando diverrà direttore e proprietario a Firenze de
Il Nuovo Giornale, Averardo Borsi può esser affiancato a un altro giornalista giolittiano di lui più celebre e longevo, Alfredo Frassati, direttore e proprietario de
La Stampa di Torino. La particolarità, ben oltre l’affinità politica, sta, per i due laici direttori, nell’aver essi generato due figli, Giosuè e Pier Giorgio, che, morti entrambi giovani in circostanze e tempi diversi, verranno additati nell’Italia novecentesca quali modelli e campioni di vita cristiana. Ai loro nomi, quasi in una sorta di concorrenza, saranno titolati per decenni tanti circoli giovanili di Azione cattolica. Se a Pier Giorgio Frassati, morto nel 1925 dopo una vita di attiva, esemplare carità, verrà molti anni dopo aperta la via della canonizzazione, a Giosuè Borsi, caduto in guerra il 10 novembre 1915 in un desiderio mistico di servire la patria e di ricongiungersi al Dio ritrovato, toccherà viceversa la sorte di una lenta, progressiva dimenticanza. Certo più complicata di quella di Pier Giorgio Frassati appare la vita di Giosuè Borsi, divisa in due da una conversione vissuta come rivoluzione personale totale, dopo un precoce successo mondano in cui la naturale eleganza e le doti di poeta, attore e dicitore di testi classici venivano congiunte a un comportamento in società gaudente e trasgressivo, disordinato se non dissipato. Alcuni versi giovanili ne tracciano l’autoritratto: «Amo la vita e freme in me di gloria/ un desìo forsennato ed insolente/ Tale mi sono e di mutar non chiedo». Ma la mutazione era già in corso e forse l’amato Dante ne ebbe qualche parte. Alcuni tra gli amici giovanili di Giosuè – il grecista Ettore Romagnoli, Fernando Palazzi, Ferdinando Paolieri, Massimo Bontempelli, Emilio Bodrero, Vincenzo Errante, lo scultore Umberto Fioravanti – ricordano, tra le varie esibizioni nel teatro di Eschilo ed Euripide, tra Milano e Siracusa, i successi delle
Lecturae Dantis in cui Giosuè saliva a vertici irraggiungibili di dizione e ispirazione. Con all’apice il XXXII canto del Paradiso: l’«Inno alla Vergine» recitato a Orsanmichele e replicato a Padova nel 1913. La morte precoce del padre, che gli aveva rimproverato la mediocrità dei suoi studi di giurisprudenza (con anche una bocciatura da parte di Salandra), la necessità di succedergli nella direzione del
Nuovo Giornale, la morte dell’amata sorella Laura, scuoteranno il giovane
bon vivant e dall’Io turbinoso. E sarà l’amore, platonico e non corrisposto, con una Beatrice degna di amore vero – Giulia – a trarlo dal turbine, persuadendolo di star trascinandosi schiavo del suo io. Lui le dedicherà un testo,
Confessioni a Giulia, che se non smuoverà l’amata, condurrà Giosuè a vincere il
tedium vitae e a crearsi una nuova prospettiva. È la scoperta di una vita cristiana che non aveva mai praticato. Si presenterà così, luglio 1914, al padre scolopio Guido Alfani, sismologo e astronomo, direttore di coscienze, nel suo osservatorio fiorentino e gli chiederà di confessarsi. Poi la comunione, che non aveva più ricevuto dopo la prima. Letture del Vangelo, dei
Fioretti di san Francesco, di sant’Agostino, dell’Imitazione
di Cristo, Pascal, Manzoni, Rosmini... Il 30 aprile 1915 Borsi riceve la cresima dalle mani del cardinal Maffi, vescovo di Pisa, presente padre Alfani. E, dopo le
Confessioni a Giulia e la cresima, Giosuè si concentrerà su nuovi scritti in dialogo diretto e profondo con Dio: quei
Colloqui, frutto di meditazioni mattutine e scavo spirituale, iniziati nel maggio 1915, quando i suoi amici e coetanei animavano rumorosamente le manifestazioni per l’intervento. A giugno vestirà l’abito di terziario francescano. Sulla guerra incombente Borsi è partecipe del sentire della sua generazione: non rinnega lo spirito risorgimentale respirato in famiglia, ma ha del pari coscienza del «terribile flagello» che si scatenerà anche per l’Italia. Volontario, si arruola e vuol partire soldato semplice, ma all’ultimo momento è trattenuto e inviato alla scuola allievi ufficiali. Solo a fine agosto, sottotenente del 125° Fanteria, partirà per il fronte, destinazione Plava, Alto Isonzo, ove sperimenterà povertà, sacrificio, spesso sconforto, ma soprattutto esternerà una grande, affettuosa, dedizione ai suoi soldati. Il terzo quaderno dei
Colloqui è scritto al fronte, tra il 29 settembre e il 16 ottobre, periodo in cui invierà tante lettere alla madre e agli amici. Il 10 novembre, di pomeriggio, condurrà all’assalto il suo plotone e verrà colpito alla testa. Il sangue bagnerà il Dante in miniformato che Giosuè portava sul petto: sarà tra le poche cose salvate dai suoi soldati, che non riusciranno invece a recuperarne la salma, dispersa come quelle di tanti caduti. Nell’ultima pagina dei
Colloqui, al fronte, aveva invocato fermezza e assistenza divina di fronte alla «carneficina intorno a me, alla vista dei caduti, nei momenti del cimento» e compiuto un bilancio esistenziale: «Bella in ogni modo ed avventurata vita la mia! Sento bene di non averla saputa meritare, riconosco di non averla saputa usare degnamente come avrei dovuto, come un magnifico tesoro per troppo tempo misconosciuto e sperperato ciecamente, con la più stolta ingratitudine. Eppure il tuo amore sollecito, Padre mio, ha saputo con una sapienza infinita e con una pazienza inesausta rimediare in mille modi alle mie colpe e alle mie negligenze ed oggi son pronto alla tua chiamata e posso confidare senza troppa jattanza nella tua indulgente bontà». Qualche anno dopo la mamma di Borsi, condottavi da monsignor Montini, sarà ricevuta da Benedetto XV che benedirà come reliquia il Dantino, affermando di aver letto i
Colloqui come l’Imitazione
di Cristo. Già nel corso della guerra i
Colloqui e le
Lettere dal fronte, stampati dalla salesiana Sei, erano circolati in decine di migliaia di copie. Tra i giovani e nelle trincee.