«Solitudine» è parola usata quasi sempre in un’accezione negativa. Normalmente è sinonimo di emarginazione e esclusione. Ma l’ultimo saggio dello psichiatra Eugenio Borgna (
La solitudine dell’anima, Feltrinelli) osa parlare anche di un’altra solitudine. Della ricercata solitudine di chi sceglie di sfuggire al rumore cui quotidianamente siamo consegnati. Della "bella" solitudine dei mistici; della creativa solitudine dei poeti. Su questa parola dunque Borgna indaga e ne trae un’altra, oggi oscurata, dimensione. «Occorre distinguere – dice Borgna – la solitudine dall’isolamento, che ne è la faccia negativa: la condizione cioè imposta da dolore, malattia, povertà, o dalla nostalgia feroce di un lutto. Anche l’isolamento però può essere scelto: è il rifiuto intenzionale dell’altro, o il vassallaggio delle proprie pulsioni egoistiche, che rompe ogni comunione con il prossimo».Ma l’altro volto, luminoso, della solitudine è appunto la solitudine scelta: «Per cercare – dice Borgna – il proprio cammino di vita interiore:
In interiore homine habitat veritas, noli foras ire…, ammonisce Agostino». E tuttavia i due aspetti, l’isolamento afflitto e la ricerca di sé, non sono regni divisi da invalicabili confini: «Esistono sconfinamenti, e correnti carsiche, che fluiscono dall’una all’altra condizione. Perché ogni forma di isolamento può essere riscattata».
La nostalgia c’entra dunque con la solitudine, come eco di qualcosa che conoscevamo e abbiamo perduto?«Certo. La "bella" solitudine di Teresa d’Avila è domanda di attingere a qualcosa di non più tangibile, come in una memoria perduta. In Teresa, la solitudine è apertamente chiamata "grazia"; e "disfatta", è quando questa solitudine scompare. In una sfolgorante intuizione: solitudine è lo spazio vuoto che può essere colmato da Dio. Come suggerisce anche un verso di Emily Dickinson: "Forse sarei più sola/ senza la mia solitudine"».
Ma un’altra Teresa, Teresa di Calcutta, che lei cita, in diari straziati dice di una notte di solitudine interiore, del suo "sorridere sempre", mentre dentro si avverte completamente vuota. Che razza di solitudine è, questa? Non potrebbe essere quasi come una talpa che scava un vuoto più grande, per fare spazio a un altro che preme?«Ogni solitudine è ritorno in se stessi, e ascolto dei motivi di dolore in noi. Se viviamo esposti al rumore, senza mai staccarci da questa terribile elisione di ogni relazione vera, ecco che la solitudine, pur aprendoci orizzonti senza fine, ci ferisce, perché ci fa conoscere esperienze che nella vita immersa nel rumore non possiamo nemmeno immaginare».
D’altronde il "rumore" è lo stato in cui la maggioranza di noi vive. «Sì, viviamo nel terrore del silenzio, e nella angoscia del confronto con noi stessi, e con il senso. Teresa di Calcutta, nella sua solitudine di ghiaccio, aveva una nostalgia straziata di Dio e dell’infinito».
Chi si affaccia sul silenzio di una clausura ne resta spesso affascinato e insieme spaventato. Che cosa nella solitudine monastica ci sbalordisce, e però ci fa paura? «Da una parte il fatto che in clausura ci si sottrae al mondo, e agli affetti. Scompare quasi completamente la parola, nel silenzio che sigilla. Chi non ha una fede altissima e un’acuta nostalgia dell’infinito percepisce in tutto questo un’eco di morte – morte delle cose contingenti. Ma quando assisti, come a me è capitato nel monastero di San Giulio a Orta, ai voti di giovani donne che con voce ferma e dolce rispondono al vescovo: sì, abbandono il mondo, allora intuisci che la clausura è il luogo di un incontro assolutamente concreto. Queste donne sono la testimonianza di una nostalgia di infinito che vive in noi. E tutto questo è grazia, come diceva Bernanos».
Nel libro lei cita Etty Hillesum, la giovane ebrea morta a Auschwitz che scriveva: "Innalzo intorno a me le mura delle preghiera come le mura di convento".«Nel mezzo dello sfacelo delle persecuzioni naziste la preghiera per la Hillesum è scudo, è invisibile cortina che la salva dal nulla. Ma da dentro quelle mura vedeva tutto, concependo un senso anche alla morte e allo strazio».
E tra solitudine e poesia, che rapporto c’è?«Siamo sempre dentro alla nostalgia dell’indicibile. La solitudine affranca, ringiovanisce, è premessa, come la malinconia, della genesi della esperienza poetica. Solitudine, anche qui, è un rientrare in sé, e ascoltare gli abissi».
Allora poesia e preghiera si assomigliano?«La grande poesia difficilmente si distingue dalla preghiera. Penso a Petrarca, a Dante. Il luogo di comunanza è che entrambe attingono alla più profonda domanda, e che entrambe nascono più abbaglianti dalla disperazione. Certo l’ultimo orizzonte della santità è Dio, che incendia e trasfigura tutta la vita; mentre la poesia è maieutica per gli altri. In un certo senso, i poeti sono dei messaggeri. E però quali affinità tra l’ostinato bussare di Leopardi contro una porta che apparentemente non si apre, e lo strazio oscuro di madre Teresa».
Anche la psichiatria, lei scrive, è incontro fra due solitudini. «Da un anno mi confronto con due pazienti ad alto rischio di suicidio. È come parlare con qualcuno che minacci di buttarsi da un cornicione; è la disperata tensione a stabilire una relazione con il malato, a non sbagliare una parola. È allora che uno psichiatra avverte la sua impotenza, e si comprende egli stesso solo: in una solitudine che è emblema di uno scacco senza fine».