La mostra di Boccioni in corso da qualche settimana a Palazzo Reale, crea il singolare effetto di un quadro divisionista: il ritratto di Boccioni ne esce dissezionato e separato nelle sue qualità, ma in un modo che sembra esaltare più le singole tessere del manto pittorico che la resa d’insieme. Si propone come mostra celebrativa nel centenario della morte, ma con una impostazione che vuole fuggire la retorica espositiva tipica degli anniversari. Recentemente a Verona è stato ritrovato un atlante delle immagini che doveva essere servito a Boccioni come memoria dell’arte dai classici fino all’Ottocento. È fin troppo facile evocare
Mnemosyne, l’atlante delle immagini di Aby Warburg, ma in realtà sono due cose molto diverse. Warburg era uno sciamano dell’immagine; voleva cavare il chiodo che impediva al nostro sguardo, condizionato da secoli di associazioni formali e visive, di vedere quel contenuto vitale che l’arte aveva o doveva avere nei classici greci più arcaici, cioè più puri. La questione della differenza e del conflitto stesso fra classico e arcaico, è alla base di tanti malintesi sull’antico come seduzione passatista. Boccioni con il suo “atlante” ritrovato mischia classici greci e simbolisti moderni, arte romana e scultura rinascimentale, il realismo di Vincenzo Vela e lo spiritualismo panico di Segantini. Ma nelle tavole che vediamo manca Michelangelo, mancano Rodin e Medardo. Non c’è una vera coerenza “decostruttiva” nel modo con cui Boccioni compone ogni pagina di immagini, si sente, piuttosto, una ricerca di forme e di elementi formali che devono servire nel momento in cui si accingerà all’opera: una specie di galleria d’accademia per così dire. Confesso di aver provato un certo disagio durante la visita alla mostra. L’allestimento mi è sembrato poco vitale, forse troppo pensato con criteri di ricerca. Francesca Rossi (curatrice della mostra) e Agostino Contò spiegano nella premessa al catalogo che correda l’esposizione (Electa) di aver voluto evitare la «classica rassegna antologica celebrativa», optando per una mostra di studio. I continui rimandi a opere di contesto o ad artisti coi quali Boccioni cercò per così dire di stabilire le proprie “affinità elettive”; una certa diacronicità nei materiali che si susseguono da una sezione all’altra; l’allestimento cupo e talvolta con una illuminazione carente là dove avrebbe dovuto essere forte ed eccessiva là dove la pittura “energetica” di Boccioni rischia, anziché di incendiarsi, di subire risalti troppo netti; ecco, questa sommatoria di fattori, hanno avuto uno strano effetto nelle mie riflessioni mentre passavo da una stanza all’altra di Palazzo Reale. Un effetto paradossale, se vogliamo, e di messa in crisi di alcune certezze sulle quali avrei messo la mano sul fuoco fino a ieri. Se avessi dovuto stendere una classifica (per quanto non ami le classifiche quando si parla di arte), sarei stato pronto a mettere Boccioni tra i primissimi artisti dell’arte italiana del Novecento (accanto a Modigliani, Balla, Sironi, Martini, Fontana, Burri); seguendo la mostra, invece, la domanda che mi ronzava in testa come un tarlo era: fino a che punto è grande Boccioni? Il corpo a corpo con Michelangelo, a cui dedica pensieri importanti e decisivi anche per chiarirsi la sua idea di arte, mi ha convinto da tempo che Boccioni sia più scultore che pittore, e una prova viene dalla forza straordinaria dei suoi disegni futuristi. La mostra espone il nucleo di quelli del Castello Sforzesco, una sessantina, di cui giustamente i curatori sottolineano l’importanza fondamentale per comprendere la sua ricerca plasti- ca. Boccioni mi dà sempre l’impressione di essere un uomo che ostenta sicurezza; che ha un temperamento aggressivo e melanconico al tempo stesso, in sostanza un artista tragico che interpreta la sua epoca quasi assumendone
in toto lo spirito disgregante e compulsivo, che poi troverà condensazione formale nella retorica futurista. In uno dei suoi scritti Boccioni usa l’espressione
bouleversement (sentirsi in stato di agitazione), e si può dire che sia il suo stato d’animo come uomo e come artista, dettato forse anche da un certo narcisismo. Quando, nel 1991, venne allestita a Verona la mostra dedicata al quadro
Materia, eseguito nel 1912 (un ritratto della madre, o meglio “il” ritratto della madre, a cui Boccioni approda dopo anni di tentativi, ricerche, opere finite), fu subito chiaro che tutto doveva tendere lì, fin dall’inizio. È uno dei quadri del Novecento, più importante e meno legato al clima storico di quanto non sia
La città che sale. Non è un quadro-pittura, è un quadrouniverso. È un quadro-mondo, cosmo, ambiente, un
toutmonde, avrebbe detto Édouard Glissant: va al di là della pittura, perché è scultura; va al di là della scultura, perché è architettura; va al di là dell’architettura perché, in definitiva, è un ritorno al grembo dell’origine. Sono certo che senza questo quadro, Boccioni sarebbe stato un pittore degno di nota, ma inferiore a Balla o a Sironi (e forse lo è comunque sotto il profilo pittorico: meno di Balla, perché in realtà viene fuori dal divisionismo e dal clima spiritualistico e decadente dell’epoca, mentre Balla filtra una quantità di riferimenti che vanno dalla miniatura islamica al sentimento decorativo orientale; meno di Sironi, che resta un “antico mae-stro”, il più vicino ai primitivi italiani che discendono da Giotto, da una idea di pittura-architettura che si fa sulle pareti degli edifici…).
Materia è il culmine anche di questa mostra, collocata nelle ultime stanze vicina all’opera scultorea di Boccioni, esposta con rapporti spaziali quasi claustrofobici che rischiano di ridurre le opere a quelle sculture che Medardo chiamava “soprammobili” o fermacarte. Vediamo l’Antigrazioso del 1913, ma sentiamo che si tratta quasi di una caricatura della
Testa di donna di Picasso che è del 1909; e
Forme uniche della continuità nello spazio, anche questa del 1913, è una
Vittoria di Samotracia non più sospinta dal fato e dal vento, ma dal mito della velocità, opera di impressionante bellezza, ma anche in questo caso segnata da una sottile pellicola caricaturale: solidificare il movimento è contraddirne l’essenza, mostrarlo nella sua prosaica materialità formale. Non a caso, vicino è esposto l’Uomo
che camminadi Rodin (e anche il grande francese sotto l’evidente tragicità cela un elemento caricaturale, di piglio retorico e virile: un altro che aveva un conto aperto con Michelangelo). Sono opere,
Materia e
Forme uniche della continuità nello spazio, che situano Boccioni ai gradi più alti della scala artistica moderna. Ma bisogna prendere atto che il suo “futurismo” è solo esteriore, nella sostanza e nella mentalità Boccioni resta un pittore classico: uno che riprende le figure archetipiche dell’arte italiana ed europea: la Madre-Maestà in trono e il mito greco che nell’assoluta staticità formale insinua la percezione psichica del tempo e del movimento