Il campione azzurro. Bocciardo: «Da papà l’oro paralimpico è più dolce»
Francesco Bocciardo
Il momento più toccante è quello che non si vede in tv. Quando l’intensità delle luci della Dèfense Arena si abbassa, perché i collegamenti sono terminati e le telecamere spente. La gente abbandona gli spalti, i nuotatori raggiungono la fermata dei bus. C’è però un angolo di tribuna farcito da bandiere tricolori che non cambia aspetto. Sono i supporter di Francesco Bocciardo, trentenne genovese, fresco vincitore dei 200 stile libero S5. Ha ricevuto la medaglia d’oro e adesso, seduto in carrozzina, la mostra a coloro che sono venuti a vederlo dal vivo. Uno in particolare, il pargoletto di nove mesi che può essere fiero di quanto realizzato dal papà. Smaltiti baci e abbracci, Bocciardo, nato con una diplegia distale spastica, spinge la sua sedia a rotelle fino alla zona interviste, dove confida ad “Avvenire” le sue emozioni.
A Rio aveva vinto i 400, a Tokyo i 100 e i 200, adesso si è confermato nei 200. Se lo aspettava?
«A essere sincero no, perché mai nessun nuotatore italiano era riuscito a imporsi in tre Paralimpiadi di seguito. Aver stabilito questo piccolo record mi riempie di orgoglio. È il frutto di ore e ore di allenamenti e di sacrifici. Tutti condensati in 2 minuti, 25 secondi e 99 centesimi».
Cosa c’è dietro questa medaglia?
«Mentirei se dicessi che il 2024 sia stato un anno semplice, perché non lo è stato per niente. È nato mio figlio, ho cambiato casa, mi sono dovuto adattare ai cambiamenti, perciò non credevo di arrivare a Parigi e vincere. Penso sia la medaglia più bella della carriera, di sicuro quella che ricorderò a lungo».
Più il gioco diventa difficile, più lei ha dimostrato di saper crescere meglio rispetto agli avversari.
«Se ci sono riuscito devo ringraziare le mie società, i Nuotatori Genovesi e le Fiamme Oro, i miei allenatori Marcello Rigamonti e Filippo Tassara, tutti i familiari e gli amici che mi hanno sopportato in questo lunghissimo percorso».
Dove si allena?
«A Genova, la mia città, alle piscine di Albaro. Sei giorni a settimana, tranne la domenica, conciliando gli impegni agonistici con il lavoro. Infatti nuoto o alle sei del mattino o nell’orario del pranzo».
E nel resto della giornata?
«Sono impiegato all’Inps. Vorrei salutare i miei colleghi che in queste settimane mi hanno sostituito per permettermi di essere qui».
Quindi sta continuando il suo lavoro pur essendo entrato nelle Fiamme Oro?
«Dal 2022 è stata data, con una svolta epocale grazie al lavoro fatto dal presidente Pancalli, anche agli atleti paralimpici la possibilità di essere assunti. A chi come me lavorava già è stata concessa l’opzione di entrare nel Corpo come tesserato, ma non essere assunto. Ho preferito quindi mantenere la doppia carriera, ma comunque è un onore e un prestigio essere membro delle Fiamme Oro. Loro sono stati i primi a far capire quanto lo sport paralimpico sia equiparato al movimento dei normodotati».
Uno spicchio di tribuna era tutto per lei.
«Sono venuti a vedermi tantissime persone. Mia madre, mio fratello, mia moglie con il piccolo Daniele di nove mesi, ossia mio figlio, che si chiama come il mio migliore amico, anche lui qui presente con figlia e moglie, così come i miei allenatori con le loro famiglie».
Cosa ha significato diventare papà?
«Un’emozione enorme. Sapevo che sarebbe stato un percorso difficile nell’anno delle Paralimpiadi, però si è dimostrata l’esperienza più bella di tutta la mia vita».
Che messaggio intende trasmettere a chi l’ha osservata da casa?
«Di crederci. Se avete un sogno, combattete per raggiungerlo. Io ho sempre avuto il sogno di far vedere quanto la mia disabilità non mi precludesse le cose più importanti. Mi alleno spesso con i normododati ed è bello vedere come lo sport abbatta veramente le barriere».
Avverte che il movimento paralimpico abbia acquisito una maggiore notorietà?
«Da Londra, che è stata la mia prima Paralimpiade, mentre questa di Parigi è la quarta, è cominciata la svolta. In Inghilterra nel 2012 per la prima volta le luci e i riflettori della comunicazione si sono accesi sulla rassegna. Da lì è diventato un crescendo, nel 2016 c’è stato una crescita esponenziale e si temeva poi che col Covid i riflettori si potessero spegnere. Fortunatamente così non è stato. Anno dopo anno ci sono sempre più realtà che ci seguono e ci supportano. Lo sport è uno solo e attraverso di esso la persona rinasce e cresce. Questo è il vero messaggio delle Paralimpiadi».
Ormai il mondo dei tre agitos è sempre più vicino a quello dei cinque cerchi.
«I collegamenti sono maggiori ed è bello constatare come molti dei tecnici olimpici siano anche allenatori paralimpici, proprio per far vedere come il livello sia alto. Ci è capitato di essere in eventi insieme agli atleti olimpici o di allenarci con loro. L’obiettivo è che grazie a queste medaglie ci siano più ragazzi con o senza disabilità che inizino a fare sport, perché lo sport può fare la differenza nella vita».