Protagonisti. Quentin Blake, il baronetto nella casa illustrata
Quentin Blake mentre dipinge “The taxi Driver”
In famiglia non c’erano artisti eppure lui appena poteva disegnava, persino l’incrocio dei binari e la cabina di manovra che si vedevano da casa. Riconosciuto come uno dei maestri dell’illustrazione internazionale contemporanea, un fuoriclasse dal tratto graffiante e gentile insieme, novant’anni domani, sir Quentin Blake, disegna da quando ne ha memoria, probabilmente da quando aveva cinque anni. Baronetto, nominato dalla regina Elisabetta per i suoi meriti artistici, ha incassato in settant’anni di carriera le nomine e i premi più prestigiosi, conducendo con ostinazione in questi anni una battaglia culturale per ridare dignità di arte a un genere come l’illustrazione sottovalutata e non considerata con la serietà che merita, contribuendo alla realizzazione nel 2014, dell’House of Illustration, il primo museo pubblico dell’Illustrazione a Londra, da quest’anno collocato in una sede stabile a lui intitolata in un quartiere a nord della città. «Tutto quello che ho imparato, l’ho imparato a scuola», ribadisce ogni volta che ripensa alla propria infanzia e giovinezza. E di scuole Quentin Blake ne ha fatte parecchie, non immaginando di poter guadagnarsi da vivere con il mestiere d’artista, laureandosi persino in pedagogia, ma sempre lavorando nel frattempo: a soli sedici è al Punch, dove sperimenta stile, colori e soluzioni, poi alla rivista Spectator e alla Penguin per le quali sforna copertine originali e spettacolari. Ma è alla Chelsea Art School che le lezioni di disegno dal vero alimentano e affinano il suo stile personale esuberante. « Esperienza straordinaria – confessa – che ancora mi accompagna nel disegnare figure in ogni posizione, anche solo immaginandole ». Figure riconoscibili nei suoi lavori, sempre in movimento, come se qualcosa fosse in ogni momento sul punto di accadere; creature spesso fluttuanti, come liberate da una inevitabile forza di gravità e portate in volo dalla forza dell’immaginazione, lievi anche nei tratti che le delineano. Un’arte la sua che gli ha permesso di creare storie mettendole in scena sulla pagina come a teatro, attraverso azioni, gesti, emozioni ed espressioni di protagonisti vivi, vivaci e caotici che hanno nutrito la fantasia dei lettori. E chi se li dimentica l’allegro signor Magnolia che se ne va a spasso con un solo stivale, il piccolo George che rigira la sua pozione magica per placare la nonna brontolona, Matilde assorta in lettura tra pile di libri. Le lavandaie scatenate o il tenero Clown, l’orrido signor Sporcelli dalla barba infestata di vecchie colazioni, cene e merende o il Grande Gigante Gentile con le orecchie spropositate e i sandali norvegesi che proprio Roald Dahl gli recapitò perché li copiasse tali e quali. E fu lo stesso Dahl a riconoscere che «quando le persone immaginano il GGG, ciò che vedono è il disegno di Quent ». Ma questo è già un seguito, perché all’inizio della storia c’è un Blake che avrebbe voluto illustrare libri ma non sapeva da dove cominciare. «Così – racconta – ho chiesto al mio amico John Yeoman: potresti scrivere un libro così posso illustralo? E lui lo ha fatto. S’intitolava Un sorso d’acqua » . Era il 1960 e non solo il sodalizio con Yeoman a oggi continua a produrre un gioco di meraviglie, ma da allora Blake, che ha all’attivo qualcosa come 500 libri, non ha più smesso di illustrare le storie per bambini degli autori più talentuosi, da J. P. Martin a Russel Hoban a Michael Morpurgo, da Michael Rosen a Roald Dahl, iniziando dal ’68 in poi a pubblicare anche libri soltanto suoi, e continuando il mestiere realizzando instancabilmente mostre, grandi installazioni per musei, murales per scuole, ospedali per bambini e anziani, come racconta con dovizia di particolari e di immagini Jenny Uglow, storica, biografa e saggista nel prezioso volume, Il libro di Quentin Blake, uscito in questi giorni dall’editore L’Ippocampo (pagine 156, euro 29,90) per celebrare i novant’anni e la carriera dell’artista. Certo il nome di Quentin Blake resta legato a doppia mandata con quello di Roald Dahl. Un lavoro meticoloso a quattro mani dal 1977 per tredici anni fino alla morte dello scrittore, e oltre venti libri, con l’uno che dava forme ironiche e gentili alle fantasie crudeli e divertenti dell’altro. « Era una figura piuttosto potente – racconta – ma ci siamo trovati molto bene». Lui abbozzava sulla base del testo schizzi rapidi sulle scene da illustrare, e altri sui tratti importanti dei personaggi. Poi si confrontavano, si aggiustavano i particolari che non corrispondevano a quanto Dahl aveva immaginato. « Io e Roald eravamo molto diversi, nel senso migliore del termine. In una coppia di artisti è molto meglio che non ci siano due versioni della stessa persona: meglio che ci sia un contrasto, quasi una sottile tensione». Più volte Blake ha raccontato come nascono i suoi disegni, anche i più semplici frutto di una attenta progettazione e solo apparentemente fatti a ruota libera, come per capriccio. Ridisegnando i tratti di una bozza posta su una scatola luminosa come se fosse la prima volta e iniziando dalla parte più difficile. «Così – spiega – se non faccio un buon lavoro, non devo rifare tutto. E non è raro che mi ritrovi, al termine di una giornata di lavoro, circondato da costosi fogli di carta da acquerello, con al centro di ognuno di essi un visino che non rende del tutto l’espressione corretta». Armato di ogni genere di strumenti, pennini, china, acquerelli, inchiostri colorati, pastelli acquerellabili, acrilici, persino la famosa “matita magica” con la punta a tre colori scovata casualmente nel bookshop della British Library, Blake lavora instancabilmente, sempre affascinato dallo sperimentare altre tecniche, dalla graffiante penna d’oca appuntita alla semplice biro con cui sta realizzando ritratti immaginari disegnati con lunghi tratti e incroci di linee sovrapposti a creare forti ombreggiature. E non ultimo il lungo pennello con cui ha dipinto in bianco e nero durante la pandemia un murale di nove metri, popolato di rifugiati su un terreno di guerra, ispirato da un tassista che aveva visto da poco Guernica di Picasso. «Viviamo tempi difficili», gli aveva detto e suggerito di realizzare qualcosa del genere per la nostra epoca. In un solo giorno Quentin ha dipinto The Taxi Drive.