Il personaggio. Biscardi, il poeta del calcio "sgub"
Aldo Biscardi (1930-2017) premiato con il Guinnes World Record per il suo “Processo”
«Non parlate in più di tre o quattro per volta che sennò non si capisce niente!». Non passa giorno che nel grande caos, anche giornalistico, in cui galleggiamo, non mi torni alla mente questa massima di Aldo Biscardi (1930-2017). E mentre sorrido, lo ringrazio per gli infiniti « sgub » (in biscardese, gli «scoop») che ci ha regalato questo gigante molisano, di Larino (Campobasso). Un predestinato alla celebrità, come i suoi conterranei, grazie al cognome che comincia per “B”: «Biagiotti Laura, la stilista; Bongusto Fred, il cantante, e poi io Biscardi Aldo, giornalista sportivo». Un autore, a suo modo, del calcio di poesia, tant’è che con un pizzico di egocentrismo ebbe a dire: «Io sono come Joyce, Pascoli, Leopardi e Pasolini. È il destino dei grandi poeti essere dileggiati».
E l’essere assurto con il suo « Prociesso » a fenomeno nazionalpopolare, l’ha esposto al pubblico dileggio, dal quale però si difese da autentico fuoriclasse dell’umorismo e del nonsense applicato al gioco del calcio. Per il censore televisivo Aldo Grasso, è stato l’Aldo da Larino a inventare il «calcio parlato», e mentre i suoi detrattori lo marchiavano come «genio mediocre», per lo storico critico del “Corrierone” «Biscardi è stato un genio del mediocre». Ma la sua era davvero un’aurea mediocritas. Sì perché la storia di quest’uomo è assai varia, come lo “spettacolo” che nel 1980, da responsabile dei programmi sportivi di Rai 3, mise in piedi cogliendo al volo l’assist del principe dei radiocronisti (con Sandro Ciotti) Enrico Ameri. Il Processo del lunedì è diventata la trasmissione cult del “calcio-dibattito” specie nel decennio che va dal 1983 al ’93. Quella della conduzione « speciiiale » di questa maschera popolare, in doppiopetto d’ordinanza e il bulbo pettinato al carotene, che ha ispirato anche il “Caccamo” di Teo Teocoli. Un teatrino dell’assurdo che solo il beckettiano Aldo nazionale sapeva gestire con l’arte del marionettista.
Con arguzia e da profondo conoscitore del gusto del pubblico, dosava pensiero debole da bar sport alla cronaca nuda e cruda appresa sul campo a Paese Sera. Chi pensa a Biscardi semplicemente come macchietta a uso e consumo della “tv trash”, ignora il sapienziale artigianato giornalistico formatosi, dopo lunga gavetta fatta in provincia, sulla carta stampata. «In tutti questi anni non ho fatto altro che riproporre in televisione quello stesso linguaggio realistico e fatto soprattutto di coerenza che mettevo nei miei primi articoli », disse durante un nostro incontro milanese in cui, tirata giù la maschera del personaggio televisivo, indossò i panni del saggista, autore de La storia del giornalismo sportivo. Da Bruno Roghi a Gianni Brera (1977).. Volume la cui prefazione affidata a Gianni Rodari si rivelò profetica: «Aldo parla di calcio come a un processo». Due anni dopo Biscardi diede alle stampe Il Papa dal volto umano (Rizzoli) in cui rimarcava il suo primo grande « sgub »: l’intervista in esclusiva, «ma mai sbandierata» che gli aveva concesso Karol Wojtyla, e che era diventata la prima pubblicazione italiana sul Santo Padre polacco.
La presentazione di quel volume di cui Biscardi andava fierissimo la fece il senatore Giovanni Spadolini, uno dei tanti statisti che risposero alla sua convocazione al Processo, a cominciare dal senatore romanista Giulio Andreotti, di cui diceva: «Come gli altri politici invitati in trasmissione, appena si accendono le telecamere dimenticano il loro ruolo istituzionale e recitano la parte “naturale” del tifoso di calcio». Il primo tifoso dell’Italia Mundial dell’82, il Presidente partigiano Sandro Pertini, in una notte gelida del 2 gennaio 1986 si collegò in diretta da Selva di Val Gardena (a 23° sotto lo zero) con il Processo del lunedì. «Doveva essere un siparietto breve e invece Pertini rimase collegato per più di due ore, divertendosi e lanciando in diretta un messaggio “sgub” con tanto di corna: “Tiè Biscardi, le elezioni anticipate mai...». Aldo e tutti i suoi uomini dal Presidente.
Dal Quirinale Carlo Azeglio Ciampi gli inviò personalmente il testo dell’Inno di Mameli «e io l’ho subito fatto cantare in trasmissione: tutti in piedi con foglio in mano». Potere del Processo in cui Biscardi, da ambasciatore del medioman italico, alternava monologhi teatrali in “calcese” del milanista Carmelo Bene alle sfuriate cosmicomiche di Maurizio Mosca, per poi passare ad appelli in modalità Onu: «A nome di tutta l’umanità, che venga magari catturato anche durante il Processo quell’assassino di “Bid Labben!” ». Biscardi regista di quella commedia all’italiana che è la fede calcistica, che riteneva «una fede da praticare e anche da discutere». Il genere condensato dell’«alto basso» frecceriano, nella sua trasmissione si miscelava con lo stesso spirito di improvvisazione della banda Arbore di Quelli della notte che imperversava nello stesso periodo in cui imperava il “biscardismo”.
Termine da “Garzantina” dello spettacolo declinato alle due voci citate di «Biscardi» e «Processo». In un’era televisiva, al di sotto della mediocrità come la nostra, in cui a dominare la scena sono mezze figure alla dio ce ne scanzi, selvagge e signorini da corte dei miracolati, Biscardi diventa “Storico Aldo”, come l’intitolazione del museo che gli ha dedicato la sua Larino dove il 25 giugno verrà assegnato il Premio Biscardi (domani presentazione al Palazzo del Coni). Nelle stanze del meraviglioso Palazzo Ducale, tra cimeli, libri, Telegatti e fotografie si può rileggere la storia di questo divertentissimo visionario nel pallone che, per primo, aveva lanciato la proposta della «moviola in campo» (oggi leggasi Var). Le sue battaglie volutamente donchisciottesche sono diventate quelle dell’eterno guerriero in campo.
Premiato nel 2011 con il “Guinnes World Record” per la trasmissione sportiva più longeva della nostra tv: 32 anni consecutivi alla conduzione del Processo, presente 996 volte su 997 totali, con una media di 2.5 ore in onda, ogni lunedì sera. Ma il premio più caro che ha custodito fino alla fine – chiedendo di non parlare più di tre o quattro alla volta – è stato «l’amore del pubblico. I telespettatori sono gli unici padroni del mio Processo e del mio mestiere, che ho sempre svolto con passione».