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IDEE. Sacconi: «Bioetica, nessuna delega alla scienza»

Maurizio Sacconi martedì 18 ottobre 2011
​Le recenti discussioni in materia di bioetica – dalla fecondazione in vitro alla distinzione tra coma e stato vegetativo, alla pillola abortiva – sono state in buona parte dominate da argomenti di natura tecnica, certamente indispensabili, ma che non sono gli unici a poter essere spesi. Anzi, essi non colgono nemmeno le ragioni profonde per cui questi temi suscitano tanto dibattito: per ciascuno di essi è in realtà in gioco il valore stesso della persona umana. L’autocritica delle scienze sperimentali nel Novecento – già Karl Popper ammetteva che la razionalità tecnica non può arrivare ovunque – viene spesso rifiutata dalle tecnocrazie. Anzi si avverte, da parte della politica e del diritto, un certo rimettersi alla scienza, un delegare scelte e opzioni che di fatto trascendono le capacità delle scienze empiriche. Ignorare questi limiti ha avuto implicazioni deleterie per la società e la democrazia. Ha innanzitutto portato a credere che alcune questioni fossero solo provvisoriamente difficili da risolvere, che un bel giorno scienza e tecnica avrebbero sciolto ogni dubbio, illuminato la soluzione migliore anche per i casi più ardui e in tal modo esentato ciascuno dal compito di prendere posizione. La sopravvalutazione della razionalità tecnica ha condotto a sperare in un futuro talmente roseo che arriva a deresponsabilizzare la società. Ha delegittimato la discussione sui temi più controversi. Costringendo questi argomenti nello spazio angusto della razionalità tecnica, ha impedito di discuterne i risvolti antropologici, etici, politici, tutti espulsi dall’area più ampia della ragione. Esautorare l’uso della ragione nell’ambito morale ha conseguenze esiziali per la convivenza sociale perché, come prefigurava Hannah Arendt, il «suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, fra vero e falso, non esiste più». Prendere decisioni soltanto in base al mero dato tecnico, attribuendo diritti e distribuendo risorse sulla scorta di calcoli e categorie prese a prestito dalle scienze empiriche, non può lasciare soddisfatti perché obbliga a mettere da parte un mondo ricchissimo di umanità, di esperienza e di tradizione. L’esclusione di questa profonda dimensione, solo perché la ragione tecnica non è in grado di comprenderla e classificarla, fa perdere ciò che è più interessante e umano nei legami affettivi e nelle relazioni. Questo atteggiamento tende a svuotare la vita democratica, in quanto orientato a ridimensionare l’approfondimento pubblico dei temi etici. Non è un caso che soprattutto nell’Europa settentrionale, o in talune organizzazioni internazionali, commissioni di tecnici ed esperti abbiano pressoché monopolizzato gli ambiti della bioetica. In questo modo si è spesso generato un nuovo potere, non trasparente e comunque non legittimato dal consenso democratico. Il controllo democratico sulla genesi dei “nuovi diritti” è assente ogniqualvolta la loro introduzione avviene a quei livelli dell’ordinamento – internazionale, comunitario o giurisdizionale – in cui minori sono le possibilità di influenza della sovranità popolare e maggiori invece le possibilità di condizionamento da parte di potenti lobby. La politica «non riguarda soltanto il modo giusto di distribuire le cose, ma anche il modo giusto di valutarle», secondo Michael Sandel. La razionalità politica – la facoltà che ci consente di vivere insieme un’esistenza ordinata – non può essere schiacciata sulla razionalità tecnica, perché quest’ultima al più ci dice cosa l’uomo può fare, mentre proprio dell’umano è chiedersi cosa si deve fare. L’autocensura della politica rispetto alla sfera etica e valoriale ha inoltre dato corso a un attivismo giuridico e giudiziario senza precedenti. Il silenzio su questi aspetti morali della vita associata ha offerto spazio alla moltiplicazione di diritti insaziabili, a volte aberranti, come quello “a non nascere”, che riguarderebbe le persone con forti disabilità, alcune delle quali sostengono oggi di fronte ai tribunali che avrebbero preferito appunto non nascere piuttosto che soffrire. A queste pretese ha offerto un’incisiva replica la Corte suprema israeliana: «La condizione di chiunque abbia avuto l’opportunità di vedere la gloria del sorgere del sole e la bellezza delle nuvole azzurre e sperimentare la vita in tutta la sua forza e il suo sapore è sempre migliore di quella di colui a cui sia stata negata questa opportunità». Collocare simili osservazioni al di fuori del campo del diritto o della razionalità politica equivale a condannarsi a una concezione della vita e dell’esperienza umana angusta e insostenibile.