Agorà

Biennale di Venezia. Il padiglione italiano gioca con il labirinto (e non si perde)

Giancarlo Papi venerdì 10 maggio 2019

Una vista dall'alto del Padiglione Italia alla Biennale d'arte 2019

Non c’è niente di claustrofobico e di angosciante nel labirinto costruito da Milovan Farronato al padiglione dell’Italia. Infatti viene lasciata aperta ogni possibilità e ogni itinerario può essere tentato, così che si è spinti, piuttosto che a rincorrere ansiosamente una via d’uscita, ad abbandonarsi al piacere dei tempi lunghi, delle sorprese, degli inciampi e andare alla ricerca del centro. Per la sua mostra Né altra, né questa: la sfida al labirinto Farronato, ispirandosi a un saggio di Italo Calvino, ma anche a Borges e a Venezia, la città più labirintica del mondo, è ricorso a quella metafora per riflettere su una realtà contemporanea sempre più disorientante.

La capacità evocativa e simbolica del labirinto si concretizza nella struttura della mostra costituita da una successione irregolare di spazi diversi, percorsi incrociati e non lineari attraverso i quali il visitatore costruisce la propria personale esperienza.
Il percorso espositivo, immaginato sulle fondamentali biforcazioni descritte da Calvino, è composto, in un gioco di rimandi tra opere storiche e realizzate per l’occasione, dai lavori di tre artisti diversi ma complementari: Enrico David (1966), Liliana Moro (1961) e Chiara Fumai (scomparsa nel 2017 a 39 anni).

Secondo Farronato la “via razionalista”, che riscatta la realtà dal punto di vista estetico e morale, è avvicinabile alla poetica di Liliana Moro che lavora sulla dimensione del raccoglimento evocando atmosfere di introspezione e intimità, spazi e situazioni che favoriscono la capacità di ascolto di sentimenti sottili e sfuggenti a volte riconducibili a un immaginario infantile e di fiaba, ma che in realtà esternano problematiche di attualità.
È il caso delle opere Salti del 1977 e La Spada nella Roccia del 1998-2019. La prima è costituita da piste per automobiline a circuito chiuso accompagnate da disegni su carta, speculari graficamente, che simboleggiano la ripetizione incessante di un percorso, senza possibilità di uscita, né di connessione tra percorsi; la seconda opera, che vuole parlarci dell’ambiguità del potere, è un algido simulacro composto da una spada di vetro incastonata in un pezzo di roccia dello stesso materiale. La “via viscerale”, che Calvino descrive come densa di «rivoluzioni interiori, esistenziale», più individualista, più incentrata sull’analisi dell’interiorità, per Farronato è riconducibile alla ricerca di David, fatta di forme antropomorfe e asessuate che generano una nuova lingua con infinite variabili indipendenti da gerarchie o da regole precostituite.

Particolarmente significativo è l’allestimento Tutto il resto spegnere III costituito da una architettura a imbuto alle cui pareti laterali è sospesa diagonalmente a mo’ di trave (è incastrata per la sua pesantezza o è lì come per levitazione?) un’enorme figura. Dopo averla superata si arriva a una parete di vetro dalla quale si può scrutare la ricostruzione della stanza da letto dell’artista adolescente, progettata dal padre negli anni Settanta.
Alle vie indicate, peraltro non sempre distinguibili in maniera netta, se ne aggiunge una terza connessa alle precedenti e rappresentata dalla ricerca di Chiara Fumai che, come scrive Farronato,«apre a una visione più rizomatica del labirinto». Quello prodotto dall’artista nella sua rapida e intensa carriera è stato un lavoro aggressivo, crudo, provocatorio che ha analizzato e criticato argomenti sociali e politici, ma anche i meccanismi della produzione artistica. Di Fumai è presentato il murale-testamento dal titolo This last line cannot be translated trascritto da Farronato come una sorta di misterioso filo rosso che collega con le sue linee, parole, simboli, frecce, tutto il percorso.