Arte. Biennale Gherdëina: Dolomiti e ladini parlano contemporaneo
Alex Cecchetti, “Sentiero”, 2022. Opera sostenuta dall'Italian Council
Le Dolomiti sono un fenomeno unico nell’arco alpino anche sotto l’aspetto culturale. Negli anni sono fioriti festival (si pensi a “Suoni delle Dolomiti”), musei in quota (su tutti Lumen, su fotografia e montagna, a Plan de Corones) ma anche iniziative di arte contemporanea, da Smach, una biennale di land art (organizzata negli anni dispari) che in Val Badia ha costituito un parco di sculture, la Val dl’Ert; o ancora Dolomiti Contemporanee, con base nel cadorino ma con un vasto raggio di azione, che sposta l’attenzione dalla natura (e soprattutto i suoi cliché) per concentrarsi criticamente su luoghi dismessi, come fabbriche, villaggi turistici, scuole, architetture militari.
Un tassello importante di questo panorama è costituito da Biennale Gherdëina, che fino al 25 settembre si propone con la sua ottava e più ambiziosa edizione. Con centro a Ortisei e con sedi espositive in altre località della Val Gardena, a cura di Lucia Pietroiusti e Filipa Ramos, ha per titolo “Persones Persons”: «La mostra si muove lungo due linee – spiegano le curatrici – La prima prende in considerazione le forme di personalità, giuridiche e non, della natura e del paesaggio, chiedendosi in che modo le espressioni artistiche possano contribuire al riconoscimento dei diritti della Terra e alla riduzione delle barriere. L’altra, riflettendo sulla pratica della transumanza tipica delle aree alpine, si occupa delle memorie antiche e future dei percorsi delle persone, degli animali, delle piante e dei materiali».
Il titolo della mostra è significativamente ladino-inglese, così come italo- ladino è il nome della manifestazione. Gardena è con Badia e Fassa una della tre valli ladine, disposte a corona attorno al massiccio del Sella. Siamo in Sud Tirolo, i discorsi pubblici qui scivolano senza soluzione di continuità fra tre lingue diverse. Non è solo un obbligo dettato da una suscettibile par condicio culturale. È una dimensione storica che oggi può a dare voce a una coscienza identitaria che non si chiude in se stessa ma valorizza l’apporto delle piccole patrie al dibattito democratico.
Non è un caso che nei giorni dell’inaugurazione e nella guida della Biennale a ladino, tedesco e italiano si sia integrato l’inglese. L’ambizione è accordare lingua locale, sulla quale l’investimento, culturale, ma anche politico, in questi ultimi decenni è stato forte, e panorama internazionale. «È tutt’altro che scontato che una manifestazione di questo tipo si possa fare in una valle di montagna» spiega Eduard Demetz, presidente di Zënza sëida (“Senza confini”), associazione impegnata sul fronte della creazione contemporanea come strumento di crescita e sviluppo in Alto Adige e promotrice di Biennale Gherdëina. «Nelle zone rurali sappiamo che il rapporto con la contemporaneità è improntato spesso a diffidenza o paura. Si è meno abituati a incontrare il nuovo. Siamo riusciti a comunicare bene e da parte della popolazione c’è interesse. Inoltre gli artisti sono stati invitati a conoscere la cultura e il carattere dei ladini, e a lavorare con l’aiuto delle professionalità artistiche e artigiane del luogo».
Allo stesso modo l’elenco degli artisti (35: erano 8 nella prima edizione) vede un gruppo di artisti gardenesi e sudtirolesi come Bruno Walpoth, Thaddäus Salcher, Barbara Gamper, Martina Steckholzer (alcuni dei quali lavorano all’estero) mescolato a molte altre nazionalità. Nessuna riserva indiana. «In mostra ci sono tutti artisti inseriti nei linguaggi della contemporaneità. Allo stesso tempo però è una Biennale delle minoranze. C’è l’artista sami Britta Marakatt- Labba o il Karrabing Film Collective, composto da aborigeni australiani, o Jimmie Durham, che era cherokee. O ancora gli artisti che lavorano sull’unicità e la fragilità della flora di queste montagne». A parlare è Doris Ghetta, fondatrice e anima della biennale. È titolare di una galleria con sede a Ortisei e a Milano, nelle cui sale troviamo artisti, come Aaron Demetz, che hanno spostato la tradizione plurisecolare della scultura in legno gardenese nell’attualità, proiettandola sulla scena italiana e oltre. Un fenomeno di assoluto rilievo e tutt’altro che scontato (ma così fortunato da avere generato in valle una sorta di manierismo modernista). «Molti di questi artisti sono arrivati dall’artigianato per poi studiare in accademia, ma bisogna pensare che accanto alla produzione di arte sacra e di giocattoli, improntata a modelli storicamente definiti, lungo il Novecento c’è la significativa esperienza della Scuola d’arte che ha cercato di fare uscire la scultura dalla ripetizione seriale. Cosa è cambiato? Fino agli anni 90 e Duemila, il figurativo era pressoché ignorato sul mercato internazionale. Con l’apertura dell’Est europeo sono arrivati grandi artisti che facevano figurazione e all’improvviso gli artisti gardenesi si sono ritrovati in linea con il tempo».
"Memory Garden" di Ignota, a Castel Gardena - Tiberio Sorbillo
Questo sistema aperto di globale e locale non è facile da gestire (anche dalla prospettiva del visitatore) e non tutto della Biennale Gherdëina, che presenta vizi e virtù di una collettiva di arte contemporanea, è riuscito. La Sala Trenker, la parte espositivamente più tradizionale, potrebbe essere ovunque: meglio la sede dell’Hotel Ladinia, un albergo in disuso, dove Giles Round lavora con il tema del souvenir e della tradizione del giocattolo in legno (la cui enorme fortuna è raccontata al Museum Gherdëina) mentre la ghanese Tabita Rezaire esplora l’arte delle doule, figure che accompagnano le donne nel percorso della maternità. Il contesto è grandioso ma anche pericoloso: le installazioni in Vallunga, presso Selva, o sono del tutto fuori luogo (il fiore abitabile, in cemento!, di Eduardo Navarro) o si smarriscono. L’affascinante Castel Gardena, maniero di caccia tra Santa Cristina e Selva aperto per la prima volta al pubblico, è invece habitat ideale per la creatura sciamanica di Chiara Camoni o per il Memory Garden di Ignota, un orto circolare che combina mnemotecnica, fasi lunari, processi di coltura collettiva.
E sono proprio i momenti di partecipazione quelli più riusciti, come il forno in adobe di Gabriel Chaile (presente anche alla Biennale veneziana): ispirato alla propria storia famigliare e all’arte precolombiana, è insieme una scultura nel centro di Ortisei e un festoso catalizzatore di convivialità; Marakatt-Labba invece chiuderà la mostra con un workshop di ricamo.
La "cerimonia del pane" di Gabriel Chaile durante l'inaugurazione di Biennale Gherdeina - Tiberio Sorbillo
Ma la vera gemma della Biennale Gherdëina è Sentiero di Alex Cecchetti, progetto a cura di Valerio del Baglivo e vincitore dell’Italian Council. Un’opera immateriale sulla spiritualità della foresta, una camminata nel cuore del bosco al di fuori delle piste, in solitaria con un perfomer-guida: un lavoro che tanto più si radica in profondità nel paesaggio quanto più è leggero. Nessuna sovrastruttura (se non una profumatissima iurta finale, sullo sfondo del Sassolungo), nulla che non sia già presente ma che Cecchetti fa vedere, ascoltare, esperire in modo nuovo. In sintesi, è un racconto. A fronte della prosopopea che impronta altre proposte, l’artista riattiva la quintilianea prosopopeia, la capacità di dare voce alle cose e mettere davanti allo sguardo e agli altri sensi una realtà invisibile. La personalità degli elementi naturali e il transumare cessano di essere impianto teorico per diventare esperienza. Certo, bisogna crederci: è l’incantesimo del teatro. Ma questo errare nella selva per infinite svolte su invisibili sentieri fino a una abbagliante radura è un piccolo miracolo.