Agorà

Intervista al regista Scimeca. Biagio, assieme agli ultimi

Luca Pellegrini sabato 25 ottobre 2014
Come i profeti della Bibbia, come gli eremiti di un tempo, Biagio lascia a valle la città e s’inerpica sulla pietra nuda, si aggomitola in un piccolo anfratto, si nutre di bacche, si veste di poco. Biagio non ha più nulla a che spartire con la società abbandonata laggiù e con quelle aride e false regole di vita, che allontanano dal senso, che chiudono gli orizzonti, che sono preludio a un’infinita solitudine. A un’inquietudine che dilania il cuore. Biagio insegue un modello che appare vetusto ai più: la purezza e la semplicità di un pauperismo vissuto nella sua essenzialità, spogliato dagli spigoli della dottrina. Non avere nulla per avere tutto. Quel tutto per lui è la speranza, fonte di una serenità spirituale che san Francesco non nascondeva, pur nella sua sofferenza. Biagio Conte ha lasciato Palermo e tutti ciò che aveva, la famiglia e le comodità, e dopo il monte ha raggiunto Assisi, poi è tornato nella sua Sicilia e ha fondato la Missione di Speranza e Carità per essere ogni giorno vicino ai poveri. Non voleva assolutamente che Pasquale Scimeca girasse un film su di lui. Ma per il regista siciliano e Marcello Mazzarella, che poi lo ha interpretato, non si possono evitare le chiamate dell’anima, inaspettate. Biagio, che racconta questa storia, sarà in sala a fine novembre ed è stato presentato al Festival del Film di Roma (dove ieri è stato assegnato il premio cattolico Signis  ex-aequo all’italiano Fino a qui tutto bene di Roan Johnson e al tedesco We Are Young. We Are Strong di Burhan Qurbani). E non è un punto di arrivo. «Dopo aver girato nel 2005 La Passione di Giosuè l’ebreo, ho tentato di scrivere un film sulla vita di Cristo – confessa Scimeca –. Sono nove anni che sto inseguendo questo progetto, partendo dal mio punto di vista laico, ossia ricostruire, basandomi sulla ricerca minuziosa, la vita reale di questo giovane ebreo divenuto il protagonista più importante nella storia dell’umanità. Ma non ne è uscita nemmeno una riga, di sceneggiatura. Per tutti questi anni ho vissuto in una confusione dialettica: volevo girare questo film, non capivo come farlo. Nel frattempo proprio Marcello, che era stato protagonista anche del mio Placido Rizzotto, mi parlava dell’esistenza di Biagio. Mi sono incuriosito, l’ho incontrato e ho scoperto due cose: che un film su di lui andava fatto e che non posso raccontare la vita di Cristo se prima non ne capisco la natura profonda, che supera la storia umana».Sembra che il film Biagio non sia riuscito a sanare questo suo travaglio interiore.«È la ricerca della fede. Per credere bisogna liberarsi da tutte le sovrastrutture della mente che ci limitano, da qualsiasi razionalismo che ci tiene ancorati, che ci allontanano dal vero Gesù, dal suo essere Figlio di Dio. La fede è un dono, ma anche una conquista e chiede di mettere in gioco ciò che pensiamo e come viviamo. Ho cercato da sempre delle figure che fossero di mediazione tra l’ineluttabilità della debolezza e della contraddizione di noi uomini e l’aspirazione a raggiungere Cristo come modello di vita assoluto, fosse anche solo come tentativo. Per questo nutro un amore appassionato per San Francesco, l’alter Christus. Biagio lo vedo come un esempio di francescanesimo contemporaneo. L’ho voluto incontrare, ho sentito il calore che emana dalla sua persona. Gli ho chiesto il perché del colore verde del saio. Mi ha risposto che è quello della speranza. È una parola che anche per me racchiude in sé il calore della vita».Biagio nel film prima di tutto cerca la libertà.«Le sue scelte racchiudono la critica radicale e rivoluzionaria a un sistema di valori determinato dalla civiltà del consumo, per questo rifiuta la ricchezza, il denaro, tutti i nostri idoli. È portatore di valori antichi, perché si rifanno alla predicazione di Gesù e alla testimonianza di San Francesco, ma per noi oggi assolutamente nuovi perché dimenticati, messi da parte dai nostri stili di vita. Ma Biagio è portatore anche di un nuovo valore che mi ha illuminato e affascinato: la libertà, appunto. Perché la fede non la dobbiamo abbracciare per costrizione, consuetudine o paura, ma essenzialmente ed esclusivamente come atto di libertà. La fede arriva come dono e la conquisti soltanto se sei libero con te stesso e in pace con gli altri. Per esserlo non bisogna avere sensi di colpa. Questo accade quando puoi dire: ho fatto per gli altri tutto ciò che ero in grado di fare. Per poter essere liberi di fronte a Dio, la propria vita interiore deve essere libera dalle paure della morte e della sofferenza, libera dalle oppressioni terrene». Nel film si intuiscono anche l’inerzia e l’insufficienza delle istituzioni nell’affrontare il dramma delle povertà. «La nostra società è in una crisi profonda per un motivo semplice: ha dimenticato l’amore, che non è un concetto astratto di vita. Non si occupa degli ultimi, ma dei primi. Pochi sono capaci di dirlo con la semplicità con cui lo fa Biagio. Ha cercato di spiegarmi che il senso del suo operare tra i poveri non è soltanto dare il cibo per sostenersi. Prima della carità per lui vengono il conforto e la speranza».Il film su Gesù non è stato accantonato del tutto.«Parto dalle cose del mondo e dalle persone che lo abitano per poter conoscere Cristo. Biagio è una di queste. Mi ha chiesto: “Pasquale, hai ricevuto il dono della fede?”. “Ancora no”, gli ho risposto. Non oso chiedere nient’altro a Dio, perché un dono grande me lo ha già fatto: la vita. Il più bello e misterioso. Per ringraziarLo ho bisogno della fede in Lui e so che questa me la devo meritare e conquistare».