Quando l’uomo si è portato in America e come si sia diffuso in quel continente è un problema su cui c’è ancora molto da scoprire. Fino a poco tempo fa le informazioni potevano venire dallo studio dei fossili e delle culture. Si sono poi utilizzate le analisi dei polimorfismi genetici sulle popolazioni viventi. Attualmente si dispone di analisi compiute sul Dna antico di reperti di diverse epoche fra 14.000 e 10.000 anni fa, nel Montana, nell’Alaska, nel Nevada, e supportano l’ipotesi di una derivazione asiatica attraverso la Beringia, una vasta regione che univa l’estremità nordorientale dell’Asia all’Alaska e ora è sommersa. Secondo le comuni vedute i Paleomerindiani mostrano caratteristiche diverse dai nativi odierni, essendo caratterizzati da crani stretti, fronte prominente.Studi recenti sui resti di una ragazza (ribattezzata Naia) vissuta tra 13.000 e 12.000 anni fa, ritrovati in una grotta sommersa nello Yucatan a Hoyo Negro (cf.
Science, 16 maggio 2014) hanno messo in evidenza, accanto a caratteristiche paleoindiane (forma allungata del cranio, faccia bassa, naso largo, prognatismo) un profilo genetico simile a quello dei Nativi Americani. In particolare il Dna mitocondriale presenta il subaplogruppo D1 derivante da una linea asiatica che risulta presente nelle Americhe. Le differenze cranio-facciali degli Amerindiani attuali che hanno testa arrotondata e faccia larga, vengono interpretate come cambiamenti evolutivi avvenuti in situ. Verrebbe così confermato il modello della continuità genetica fra Paleoamericani e Nativi americani.Resta però sempre la domanda se non possa essere intervenuta qualche mescolanza nel tempo con altri gruppi. Al di là della questione sollevata dal recente studio sui reperti di Hoyo Negro si ripropone il grande tema del popolamento del continente americano che viene fondamentalmente ricondotto ad apporti asiatici, avvenuti in tempi diversi, ma con gruppi umani non riferibili a una medesima tipologia. Essi sono giunti nel continente americano dall’estremità nordorientale dell’Asia lungo un corridoio di terra, la Beringia (attualmente lo stretto di Bering) che univa la Siberia all’Alaska. Infatti durante l’ultima glaciazione il notevole accumulo di acqua in forma di ghiaccio nell’emisfero boreale portò oltre che a estese formazioni glaciali a basse latitudini, a un abbassamento del livello del mare facendo emergere vaste regioni attualmente ricoperte dal mare. Il ponte di terra tra Asia e America, la Beringia, poteva estendersi in larghezza fino a 1000 chilometri. Attraverso questo istmo di terra, che persistette per qualche migliaio di anni, poterono passare mandrie di animali (bisonti, mammuth, cavalli, eccetera) e gruppi umani in due momenti principali: tra 70.000 e 35.000 anni fa e fra 26.000 e 9.000 anni fa, quando il clima, divenuto più mite, permise l’apertura di un corridoio tra il ghiacciaio della Cordigliera e il ghiacciaio della Laurentide nell’America del Nord.La presenza dell’uomo è segnalata in epoche molto antiche: bambino di Taber (Canada, 40.000 anni fa), a Monte Verde (Cile, 35.000 anni fa), a Pedra Furada (Brasile, 50.000 anni fa). Meglio documentati i reperti da partire dai 20.000 anni fa. Il contingente più grosso risalirebbe a circa 18.000 anni fa. Secondo analisi di frequenze geniche e caratteristiche dentarie gli antenati degli Indiani Na-Dene e degli Eschimo-Aleutini sarebbero arrivati tra 14.000 e 8.000 anni fa. Dall’America del Nord l’uomo si diffuse nelle altre regioni, come si ricava dall’antichità decrescente dei giacimenti antropici dell’America del Nord, del Centro e del Sud.Sono da ammettersi diverse ondate migratorie, probabilmente con apporti non omogenei dal punto di vista antropologico. Esse dovettero portare forme di Homo sapiens arcaico e moderno, fra cui la componente protomongolica. Ricordiamo che l’uomo preistorico, proveniente dall’Africa e dall’Europa, aveva raggiunto da molto tempo le regioni settentrionali e orientali dell’Asia. Si pensi al Sinantropo della Cina o ai Neandertaliani e ad altre forme di Homo sapiens vissute circa 40.000 anni fa nei Monti Altai della Siberia.Nel Nord America in epoca abbastanza recente (10.000 anni fa) sono segnalati reperti di tipo mongolico, come l’uomo di Minnesota (Stati Uniti), di Tepexpan (Messico), di San Diego (California), brachicefali con faccia appiattita e zigomi pronunciati. Ma vi sono anche evidenze, come nei fossili di Tlapacoya (Messico) di 12.000 anni fa e in quelli più tardivi di Lagoa Santa (Brasile) e di Punin (Ecuador), di caratteristiche australomelanesoidi (cranio allungato, faccia e orbite basse, prognatismo). Da dove possono provenire? Non è da escludere che, come è stato sostenuto da Paul Rivet, noto antropologo e americanista, che ci sia stato un apporto, per quanto limitato, per via transpacifica dall’Australia (attraverso l’Antartide?), dalla Melanesia e dal Sud-est asiatico per le regioni centromeridionali dell’America, probabilmente però in epoca recente, quando la navigazione poteva consentire la migrazione di piccoli nuclei umani, come sembrano suggerire alcuni elementi di carattere etnografico e linguistico.Questi diversi apporti spiegherebbero una certa eterogeneità degli indigeni americani, quali che siano state le vie di immigrazione, pur prevalendo uno stroma genetico di tipo mongolico. Possono essersi verificati fenomeni di deriva genetica, incroci, adattamento e anche cambiamenti evolutivi nel tempo, come ipotizzano studi recenti.