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Pugilato. Nino Benvenuti, 80 anni e «pronto a far pace con Mazzinghi»

Massimiliano Castellani venerdì 20 aprile 2018

L'incontro sul ring nel 1965 tra Benvenuti e Mazzinghi

Nino non ha mai avuto paura di salire su un ring. E adesso che è arrivato sulla riva degli 80 anni e «devo fare i conti inevitabilmente con la morte, beh, io non ho paura». Sono altri gli avversari temibili, apparentemente impossibili, che ha dovuto affrontare. E da pugile sa che i ganci peggiori sono quelli che arrivano da un mondo che da sempre è «schiavo dell’indifferenza e dell’ipocrisia. Siamo quelli che alzano le spalle di fronte alla miseria e alla disperazione. Che si lavano la coscienza con un Sms da due euro». Nino la sua parte l’ha sempre fatta. Il suo cammino è decisamente cambiato quando anni fa «con gli amici della Caritas» arrivò in India per lavorare da volontario nel lebbrosario di Madras. È stato al ritorno da quel viaggio profondamente spirituale che per la prima volta ho avvicinato il “mito” Nino Benvenuti. L’uomo da una carezza in un pugno aveva fatto esperienza diretta con il dolore di quell’umanità dimenticata. Lì, nel lebbrosario indiano aveva toccato con mano le ferite fisiche di corpi che in cambio gli avevano donato la «fratellanza e la dolcezza» delle loro anime. Un incontro alla pari, perché Nino è una grande anima, non solo dello sport, e lo conferma con questi appunti di vita, L’orizzonte degli eventi (Cairo, pagine 156, euro 13,00), “dettati” a Mauro Grimaldi e Ottavia Fusco Squitieri, moglie del regista Pasquale che è mancato nel febbraio dello scorso anno e non ha potuto portare a termine il progetto di un film sulla straordinaria vicenda sportiva ed esistenziale di Benvenuti.

Un film che sarebbe iniziato da Isola d’Istria, la culla natia del giovane «Giovanni detto Nino», costretto ad abbandonarla per le rappresaglie sanguinarie delle squadracce slave. I feroci titini alimentarono in lui «il senso della dignità e dell’appartenenza. Io sono istriano prima e italiano poi. Ho sempre rivendicato queste mie origini e ne ho fatto la mia forza». Tenacia del ragazzino fisicamente non impressionante ma che fin dai primi incontri mascherava il gap con gli avversari più “grossi” puntando su una tecnica sopraffina. Arte nobilissima appresa nella palestra triestina rubando il mestiere con gli occhi ai mitici danzatori Tiberio Mitri e Duilio Loi. Ballerini eccelsi del quadrato, ma mai quanto lo straordinario Sugar Ray Robinson che per «me resta il più grande di tutti, anche di Cassius Clay», sottolinea Nino. Ricordi dolci, misti all’amaro. Come la perdita precoce della madre: ferita al cuore il giorno che le guardie dell’Ozna fecero irruzione in casa Benvenuti per portarsi via Eliano, il fratello sedicenne, che per fortuna poi scampò alle foibe. «Non avevo ancora diciotto anni quando persi mia madre... Per me fu un colpo tremendo. Da allora sono sempre salito sul ring con la sua fede legata a un laccio della scarpa».

Un simbolo di protezione che da lì a poco lo avrebbe accompagnato alla conquista del titolo olimpico dei welter. Un’impresa compiuta scendendo di categoria, «quattro chili sotto il mio peso forma». Uno dei tanti sacrifici imposti per diventare qualcosa di più di un pugile, il simbolo di una nuova Italia. Nino, il figlio di un Paese in pieno boom. Se Mitri e Loi erano stati i pugili dell’Italia della fame e della miseria, Benvenuti rappresentava il pieno riscatto di un’Italia che produceva e che era in grado anche di esportare bellezza e spirito vincente anche con il pugilato. Uno sport che all’epoca con orgoglio Benvenuti rimarca «era con il ciclismo il più amato dagli italiani, il calcio veniva dopo». Lo storico confronto Benvenuti-Mazzinghi (18 giugno 1965), valevole per il titolo mondiale dei welter, portò cinquantamila spettatori allo stadio di San Siro. Un successo, quello di Benvenuti, che Mazzinghi non ha mai digerito e da allora i due non si sono più rivolti la parola (Avvenire li invita a fare la pace).

L’apoteosi per «Nino l’italiano», come lo chiamavano a New York, fu il 17 aprile 1967 al Madison Square Garden. Per non destare gli italiani dal sonno (ordine del governo), quella sfida epica, la prima della trilogia con l’amiconemico Emilie Griffith, venne trasmessa dalla tv registrata il giorno dopo, ma oltre diciotto milioni di italaini restarono comunque svegli fino all’alba ascoltando la palpitante radiocronaca in diretta dalla voce cristallina di Paolo Valenti. Un trionfo e l’inizio di un’amicizia fraterna che solo il pugilato può creare, quella con “Emilio”. Il suo amatissimo Emile Griffith, anche lui classe 1938: il primo pugile originario delle Isole Vergini a conquistare la corona di campione del mondo professionisti. Un pugno di pietra, quello del colored, talmente potente che nel 1962 uccise Benny Paret, “reo” di avergli dato pubblicamente dell’omosessuale durante la cerimonia di presentazione del match. «Griffith era omosessuale, cosa difficile da accettare in quell’America degli anni ’60 ancora profondamente omofoba e razzista», dice Benvenuti. La morte di Paret è una delle tante cicatrici impresse nell’anima di Griffith che l’amico Nino ha accudito e onorato fino alla fine dei suoi giorni. Così come ha fatto con Carlos Monzón, l’altro grande amico-nemico di una carriera costellata dai 170 incontri vinti, prima della sconfitta farsesca con il sudcoreano Ki Soo Kim, mentre si avviava a salire sul trono del re dei superwelter (nel 1965-1966) e poi dei medi (dal 1967 al 1970).

Ma il match con Monzón, l’8 aprile 1971, fu il suono del gong finale. La spugna gettata sul ring di Montecarlo dall’amico manager Bruno Amaduzzi era il segno della resa definitiva dinanzi a quel nuovo monarca dei medi, l’angelo dalla faccia sporca. L’indio Carlos, invulnerabile sul ring quanto fragile appena metteva i piedi fuori per seguire un cammino disperato, poi macchiato dall’omicidio della moglie. Un tragico epilogo, quello di Monzón, morto a soli 46 anni in un incidente stradale mentre stava rientrando in carcere. «Andai a trovarlo in Argentina, al penitenziario di Chunin dove era recluso. Mi accolse con un sorriso dicendomi dolcemente: “Come va Nino, siamo ancora amici vero?”. Certo che siamo amici, gli ho risposto abbracciandolo». Nino ha portato sulle spalle la bara in un funerale seguito da ventimila argentini. Un atto dovuto a un uomo che come lui ha regalato sogni ed emozioni forti a quelle generazioni che guardando i loro corpi potenti, tesi verso l’ultimo sforzo, hanno creduto nella rivoluzione giovanile, nella nascita di un mondo migliore, privo di ingiustizie e magari senza più guerre. Non è andata proprio così. Ma Nino la sua sfida, a ottant’anni, in fondo sa di averla vinta e un gancio dal cielo glielo manda Jim Morrison che nei suoi appunti di vita gli ricorda: «A volte un vincitore è semplicemente un sognatore che non ha mai mollato».