Lo scorso 5 febbraio, a un mese dalla sua morte a Cambridge tra le braccia della figlia Barbara, ci siamo trovati in molti a ricordare Beniamino Placido, firma illustre di
Repubblica, ma anche scrittore e finissimo interprete dell’orizzonte culturale e sociale in cui siamo immersi. Nella Sala della Protomoteca del Campidoglio io ero l’unico ecclesiastico presente in mezzo a tante figure "laiche" della cultura, del giornalismo nonché della semplice cittadinanza romana. La mia presenza non era, però, stridente perché molte erano state le ragioni profonde che ci avevano unito in un’amicizia che era per me molto cara e preziosa. E in quella serata piovosa ho potuto testimoniarle pubblicamente, accanto al direttore di
Repubblica, Ezio Mauro, a Massimo Cacciari, a Franco Marcoaldi.Ne raccolgo ora solo alcune tra le molte che mi affiorano alla mente perché, nonostante la distanza spaziale (io allora a Milano, lui a Roma) e ideale (Placido incarnava gli ideali alti ma "laici" del Partito d’Azione), tanti erano i legami intellettuali, spirituali, umani che intessevano i nostri incontri, le telefonate, gli scritti e persino le assenze, come fu nell’ultimo periodo della sua vita quando la malattia aveva creato una sorta di silenzioso velo sulla sua esistenza. C’era, innanzitutto, una sintonia di base, fondata su un atteggiamento che in questi tempi così "specialistici" è snobbato e fin sbeffeggiato. Sì, entrambi eravamo eclettici: amavamo la selezione (
ek-lego), attingendo, però, a molteplici terreni. In lui ardeva la fiamma della
curiositas che, etimologicamente, rimanda al tardo latino
cura, cioè l’impegno severo e fin faticoso, appassionato e teso, alla ricerca dei vari significati e colori della realtà.Una volta gli avevo ricordato la nota battuta dell’
Emile di Rousseau: «Si è curiosi soltanto nella misura in cui si è molto istruiti», e gli avevo applicato - rendendolo felice - la definizione del sapiente data dal filosofo ebreo greco Filone di Alessandria d’Egitto,
methórios, ossia colui che sta sulle frontiere, attento anche a ciò che sta al di là della sua regione, curioso appunto della diversità. Beniamino sapeva spaziare da un simbolo folclorico a un testo di Gogol (citato in russo), dall’amata letteratura americana all’oggetto popolare significativo, da un testo sacro a uno spettacolo o a un personaggio di quella televisione che egli aveva così acutamente perlustrato nel suo linguaggio, nei suoi splendori e nelle sue miserie. Questa qualità eclettica egli l’aveva manifestata soprattutto nell’altra caratteristica che ci aveva uniti nell’amicizia in modo profondo, cioè la sua sorprendente passione per la teologia e in particolare per l’esegesi biblica.Sì, egli si era iscritto all’Università Gregoriana per seguire i corsi di ebraico e di scienze bibliche, affascinato dalle Scritture: la stessa nostra conoscenza, che non riesco a collocare in una data precisa (forse dopo una sua inattesa recensione al mio programma televisivo
Frontiere dello Spirito su Canale 5), ebbe come sorgente principale il commento che io avevo pubblicato bel 1979 sul libro di Giobbe, un libro sacro di straordinaria fragranza poetica e potenza umana e spirituale, il cui enigma intimo e la cui vicenda lacerante - e tutt’altro che condotta con "pazienza" dal protagonista - avevano conquistato Placido. Come osservava Marcoaldi, il suo ideale esecutore testamentario, a un vaglio rigoroso degli scritti di Beniamino il primato dei rimandi è da assegnare di gran lunga alla Bibbia. Placido mi confessava di stupirsi nel vedere come i predicatori - che ascoltava in occasione di funerali o matrimoni di amici - riuscissero a fare omelie così fredde e scontate dopo aver letto pagine così "drammatiche", impastate di fuoco come erano quelle delle Sacre Scritture.Un giorno il cardinale Martini mi chiese di convocare nel palazzo episcopale ambrosiano per un intero pomeriggio alcuni esperti, così da ricevere indicazioni sulla lettera pastorale dedicata alla televisione che stava preparando e che poi uscì col titolo
Il lembo del mantello (1991). Io a Milano invitai Umberto Eco, Aldo Grasso e Armando Torno, tutti e tre amici di Placido. Avevo qualche esitazione a far venire quest’ultimo fin da Roma, ma appena gli prospettai l’idea, egli esclamò: «Ma io ci vengo anche in monopattino!». E fu un momento straordinario, perché in quell’incontro, che si protrasse persino dopo la cena, Beniamino, che pure aveva una "attrezzatura" unica su questo tema, rivelò un’altra qualità che me lo ha fatto da sempre ammirare.Una qualità anch’essa oggetto di satira ai nostri giorni così scanditi dall’arroganza e dalla prevaricazione. Si tratta dell’umiltà, una virtù che non è solo schernita, ma addirittura distorta, travisata, falsificata nella sua maschera camuffata, l’ipocrisia. Placido era sincero ma rispettoso, netto ma discreto, conosceva la spezia dell’ironia, ma ascoltava con attenzione anche il diverso e l’avversario, era nobilmente "buono" senza essere ingenuo. A questo proposito vorrei evocare solo un episodio divertente che mi riguarda. Egli continuava ad appassionarsi all’ebraico; anzi, si era costruita una vera e propria biblioteca specifica di testi teologici, esegetici, storico-critici che la figlia Barbara vorrebbe ora destinare proprio a me per farne continuare l’uso anche attraverso la donazione a studenti di queste materie. Vedendo tanto impegno e competenza, io un giorno proposi a Beniamino di elaborare insieme una grammatica di ebraico biblico per "ignoranti", semplificando la complessità di quella lingua così da offrire una strumentazione indispensabile per un primo approccio ai testi sacri. Egli accettò subito con gioia, ma a questa condizione: «Tu metti tutta la tua conoscenza e sapienza, io metto la mia ignoranza e il risultato sarà perfetto!».Tanti altri ricordi s’affollano nella mia memoria, segnati dalle iridescenze più diverse. Molti sono stati proposti da altri con intensità in quella serata commemorativa ma non retorica, malinconica ma serena, seria ma lieve (e la lievità - che non è la vana e fatua leggerezza di oggi - fu un altro lineamento del volto interiore di Placido).In particolare ci commosse, ma ci fece anche sorridere, come avrebbe desiderato suo padre, Barbara che si affidò alla lettura di una bellissima lettera a lei indirizzata quasi come testamento spirituale, spoglia però dell’enfasi e degli orpelli di quel genere letterario. Io, che alla notizia della sua morte avevo scelto di affidarlo a quel Dio sul quale egli si era interrogato e a quel mistero trascendente verso cui si era orientata la sua ricerca, nella certezza di non disturbare la sua "laicità", vorrei a suggello di questo ricordo lasciare a lui la voce con due frammenti dei suoi scritti, consapevole di quanto egli temesse la corruzione del linguaggio e la svalutazione della parola nella chiacchiera. Il primo è quasi un motto "sapienziale": «I consigli di vera saggezza suonano sempre troppo semplici. È questo il guaio, per questo non si seguono». E l’altro è evangelico: «Ci cadono i capelli e ce ne disperiamo. Per colpevole vanità. Ma anche perché assaporiamo - in questa disgrazia - l’amara caducità della nostra esistenza. È sbagliato dicono i Vangeli. Nulla è insignificante. Cinque passeri non si vendono forse per due assi? Eppure neanche uno di essi è dimenticato davanti a Dio. E anche i capelli del vostro capo sono contati. Non temete, voi valete più di molti passeri».