Tecnologia. Fasoli: «Benessere e stress digitale, ecco come funzionano e come gestirli»
La rivoluzione digitale ci semplifica l’esistenza e ci apre un’inedita, vastissima gamma di possibilità d’intrattenimento. D’altra parte, ci sottopone a un’iperstimolazione che sembra dapprincipio gratificarci, ma poi tende a generare una condizione opposta a quella desiderata. Se per qualsiasi attività in cui siamo impegnati tendiamo a porci criteri che ci conducano a uno stato di benessere – in genere, la regola del né poco né troppo –, quando si tratta di smartphone e social media il rischio è di trovarsi nell’incapacità di costruire un proprio equilibrio. Perché la stimolazione è pensata proprio al fine di catturarci senza soluzione di continuità. Una strategia per prendere il meglio dell’era digitale può essere allora quella di seguire la via classica della “ricerca della felicità”, sostenuta da ciò che ci suggerisce la ricerca condotta dalle scienze cognitive. Nasce così Benessere digitale (il Mulino, pagine 148, euro 13,00), agile e utile “guida di sopravvivenza” basata sui dati e le conoscenze più recenti, scritta da Marco Fasoli, studioso degli aspetti sociali ed etici delle tecnologie, attivo all’Università di Milano-Bicocca.
Sembra già difficile convergere su una definizione condivisa di benessere. Se il benessere diventa “digitale”, di che cosa stiamo parlando Fasoli?
«Esistono dei vantaggi che il digitale ha introdotto nelle nostre vite e che sono indiscutibili. Oggi, però, comincia ad essere evidente che esistono anche effetti meno positivi. Fino a qualche anno fa molti di questi fenomeni venivano liquidati come effetti collaterali temporanei, mentre oggi appaiono sempre più radicati. Nella misura in cui riconosciamo che le tecnologie digitali possono incidere positivamente o negativamente sulla nostra qualità della vita, il benessere digitale si configura come la capacità di disinnescare gli aspetti critici riuscendo al contempo a sfruttare le opportunità che il digitale e l’iper-connessione ci mettono a disposizione, cioè il lato migliore».
Ci sono molti tecno-entusiasti e anche alcuni tecno-catastrofisti. Il sovra-consumo digitale (che riguarda ormai molti) ci rende davvero insoddisfatti? E perché?
«Per definizione, il sovra-consumo di tecnologie digitali sottrae tempo ad attività che noi stessi riteniamo essere più significative. Produce quella insoddisfazione, ormai spessa messa in conto, che deriva dalla sensazione di non aver investito il nostro tempo come avremmo voluto. Si tratta di un comportamento apparentemente irrazionale, perché siamo noi stessi a scegliere qualcosa che ci lascia insoddisfatti a posteriori. La frequenza di questi comportamenti incoerenti, però, è ben documentata dalle scienze comportamentali, che hanno individuato diverse cause alla sua base».
Una tesi del libro è che non siamo noi deboli di volontà ma ben congegnati gli smartphone per irretirci. Ci può spiegare?
«Come esseri umani siamo dotati di un cervello che si è evoluto per migliaia di anni in un ambiente in cui informazioni e comunicazioni scarseggiavano. Oggi il cervello si trova a dovere affrontare un sovraccarico di stimoli digitali. Come se non bastasse, le aziende utilizzano i risultati delle scienze comportamentali e cognitive per cercare di spingerci al massimo consumo possibile, che equivale al loro massimo profitto. Ciò viene fatto attraverso precise scelte di design. Per esempio, alcuni social ci somministrano ricompense informative, come i like, in modo randomizzato, in modo tale che non sappiamo mai quando li otterremo e quando no. Questa assegnazione casuale può sembrare poco rilevante, ma si tratta di stimoli che attivano circuiti cerebrali legati alle ricompense, che normalmente entrano in funzione durante le attività piacevoli, ad esempio quando mangiamo cioccolato. Il tentativo è quello di utilizzare il design cognitivo per trasformare le piattaforme in una specie di slot machine alle quali siamo agganciati in modo compulsivo, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti».
Esiste uno stress digitale? A che cosa è dovuto?
«Lo stress digitale nasce dal sovraccarico di informazioni e comunicazioni che cerchiamo di governare ogni giorno. Sommersi da questa pioggia di stimoli, riconoscere e filtrare quelli importanti, che richiedono la nostra attenzione, è molto impegnativo e richiede di rimanere a lungo, se non sempre, connessi. Ma essere sempre online significa accettare un grande numero di interruzioni nella nostra vita quotidiana, che sono altamente stressanti, così come abituarci al multitasking. Cercare di svolgere più compiti in un lasso di tempo ristretto si rivela essere a sua volta stressante, oltre che inefficiente. Per quanto il nostro cervello lavori in parallelo in modo inconscio, la nostra attenzione funziona in modo ottimale solo quando è focalizzata su un compito esplicito. Il risultato è che oltre a subire alcuni fattori stressanti del digitale tendiamo a rispondere ad essi con comportamenti che sono, a loro volta, ulteriormente stressanti».
C’è qualcosa di non banale che si può ancora dire sul fatto che i social media riducono e peggiorano le relazioni interpersonali?
«Non sarei così pessimista, anche se ammetto che gli aspetti critici sono numerosi. I social hanno modificato radicalmente il modo in cui ci relazioniamo, ma le dinamiche che si sono sviluppate al loro interno e il modo in cui influenzano il nostro stato d’animo, così come i nostri comportamenti relazionali, sono in gran parte ancora da scoprire. Alcuni aspetti interessanti sono comunque già emersi. Per esempio, si è scoperto che spesso i forti utilizzatori di social si ritengono meno felici degli altri, e questo viene spiegato individuando degli errori cognitivi sistematici (cosiddetti bias) che entrano in gioco nelle dinamiche di consumo dei contenuti social. Più in generale, la diffusione dei comportamenti di phubbing, che altro non è se non l’atto di snobbare qualcuno durante le interazioni sociali per focalizzarci sui nostri smartphone, si è rivelato particolarmente deleterio per il nostro benessere e per la nostra vita sociale».
Quali sono i consigli “scientifici” per prendere il buono del mondo digitale ed evitare le trappole? Bastano diete periodiche e moderazione?
«I consigli scientifici derivano dall’applicazione delle scienze cognitive e comportamentali, in particolare dai cosiddetto nudging e boosting. Si tratta di tecniche che mettono in gioco abitudini, strategie cognitive e meta-cognitive, soluzioni tecnologiche e sociali. Per esempio, alcuni programmi favoriscono la concentrazione bloccando l’accesso alle applicazioni e ai siti più distraenti durante un determinato periodo. Ma anche modificando il funzionamento dei nostri dispositivi e di alcune app è possibile ridurre in modo notevole le interruzioni. Le “diete” periodiche e l’invito alla moderazione spesso sono palliativi, se non vengono sostenute da strategie più complesse e avanzate».
In definitiva, con il digitale si sta meglio o peggio?
«Direi che dipende da diversi fattori, ma se i meccanismi economici alla base di molte piattaforme fossero diversi o se l’utilizzo dei dati personali fosse regolato tutelando maggiormente la privacy, gran parte del mondo digitale potrebbe essere costruito e progettato per farci stare decisamente meglio. Uno degli aspetti più importanti è riuscire a ridurre la quantità di attività online per privilegiare, invece, la qualità».