Dibattito. Bellamy: «I veri filosofi? Quelli che amano la verità»
Francois-Xavier Bellamy
«Seducente, coerente, ricercato, volutamente antimoderno, impregnato di tradizionalismo cattolico»: così "Libération" per descrivere Francois–Xavier Bellamy, un giovane intellettuale, un caso in Francia. Figlio di professori, alunno modello, filosofo, insegnante, politico: è stato vicesindaco di Versailles, è parlamentare europeo. Ogni suo libro un best seller, ogni sua dichiarazione, un dibattito.
Lei si definirebbe “tradizionalista cattolico”?
In Francia abbiamo la passione di attaccare etichette alle persone, ma è sempre molto difficile ridursi a una sola di queste etichette. Io sono cattolico, sono professore di filosofia, ho esercitato questo mestiere con passione per più di dieci anni e adesso sono un parlamentare europeo francese e spero per qualche anno di servire nella vita politica con la formazione che mi ha dato il mio lavoro di professore di filosofia.
Da giovanissimo ha fatto i più alti studi, e ha scelto di andare ad insegnare nelle periferie di Parigi.
Come molti giovani insegnanti in Francia ho cominciato ad insegnare in luoghi svantaggiati, volevo condividere la filosofia con allievi che non erano degli specialisti, per poter offrire quello che questa magnifica tradizione intellettuale può dare in termini di libertà perché potessero appropriarsi della loro vita. Il primo libro che ho scritto, Diseredati, ricostruisce un po’ la crisi della trasmissione della conoscenza. Io ero in contatto con tanti giovani che sono vittime del fallimento del nostro sistema scolastico: è una ingiustizia sociale privare un giovane dell’accesso alla cultura perché la cultura non è soltanto prepararci al nostro mestiere di domani, ma è ciò che fa di noi dei cittadini, capaci di determinarci in modo libero e autentico ed è ciò che ci apre alla nostra vita interiore.
Parole come autorità e maestro non sono affatto di moda e d’altronde non ci sarebbe la filosofia senza la trasmissione del sapere. Lei sostiene che filosofo non è un titolo sociale, accademico, ma una disposizione esistenziale.
Questa è un’idea che attraversa tutta la storia della filosofia e che dicevano già gli antichi Greci: la filosofia è la ricerca della sapienza, della saggezza e ne abbiamo bisogno più che mai. Tutti dobbiamo diventare filosofi, nel senso che dobbiamo diventare amanti della verità e desiderosi di conformare la nostra vita alla verità. E’ vero che oggi si è filosofi di mestiere.
Anche filosofi organici di mestiere. Lei ritiene, tra i pochi, che la politica abbia anche il compito di difendere un’eredità culturale e di trasmetterla. Naturalmente il rischio è quello di fare battaglie identitarie divisive.
Credo proprio il contrario, il genio di questa trasmissione dell’identità europea è l’accoglienza di ciascuno, qualunque sia la sua storia. La nostra identità non è un’occasione per escludere, ma per costruire il legame che ci unisce. Ho visto i giovani a cui insegnavo, figli dell’immigrazione, con una storia familiare che li legava ad altri paesi: attraverso la cultura possono diventare totalmente eredi di questo patrimonio condiviso; la cultura si trasmette non come un capitale economico che viene diviso nella misura in cui lo si condivide. La nostra letteratura, la nostra lingua è stata arricchita da persone che sono venute da lontano, ed è la cultura che li ha fatti quello che sono, membri una comunità. E’ questo il miracolo che dobbiamo ritrovare oggi.
Dimora. Per sfuggire all’era del Movimento perpetuo è il libro che è appena uscito in Italia, pubblicato da Itaca e dalla Fondazione De Gasperi. Chi era costui per un repubblicano francese che lavora in Europa?
Un attore molto importante della storia europea, che incarna anche la dimensione spirituale dell’Unione Europea. Perché noi parliamo spesso di Europa come di un progetto, di una costruzione, ma l’Europa è Innanzitutto un’eredità e la storia che noi riceviamo è un’aspirazione, una certa idea dell’uomo. Se l’Europa è così fragile, così screditata, così contestata è perché gli europei non sanno più qual è la loro dimora. Non sappiamo più dire che l’Europa non è soltanto un’organizzazione internazionale, un grande mercato, ma innanzitutto una civiltà.
E i cattolici, sanno ancora esprimere politiche o politici che rappresentino i fenomeni sociali? Devono impegnarsi in politica? Come devono tradurre il loro impegno nella realtà in azione politica?
La prima cosa che vorrei dire è un’idea che abbiamo in Francia più che in altri paesi: nella nostra eredità europea, nella nostra civiltà greco–latina, nel nostro patrimonio cristiano l’idea di laicità ha fatto il suo cammino ed è preziosa, quindi la fede non è un’autorità sul terreno politico. Noi siamo coerenti con noi stessi e di conseguenza un’unità ispira la nostra azione quando entriamo nel terreno politico, ma si può essere cattolici e avere delle idee diverse sul modo di servire la giustizia e il bene. Io questo lo vivo nella filosofia: si può praticare la filosofia essendo cattolici, ma la fede non è un’autorità in filosofia, la filosofia è il terreno della semplice ragione, quindi bisogna dare prova di molta umiltà per poter fare un cammino con intelligenza ed entrare in relazione con tutti i nostri contemporanei, qualunque siano le convinzioni religiose e spirituali. Io credo che i cattolici debbano impegnarsi e che purtroppo abbiano spesso il difetto di rimanere ai margini, di mancare al mondo. Invece il Papa ci invita ad andare alle periferie, ad uscire dalla chiusura delle nostre piccole logiche comunitarie, ad impegnarsi con il linguaggio della ragione.
Cavour ci ha insegnato che la Chiesa dev’essere libera in libero stato. Ma è vero che un cristiano non può staccare la propria vita dalla fede, le proprie convinzioni nascono dall’educazione, dal rispetto della dottrina cristiana e vanno giocate nelle scelte che vanno fatte nella realtà.
Ed è molto importante che nella società si accetti che ognuno si impegni per ciò che è: durante la campagna elettorale in Francia non ho mai fatto un stendardo della mia fede, però costantemente io ho portato addosso un’ etichetta, come se il fatto di essere cristiano mi rendesse illegittimo sul terreno politico. Non c’è una sola ragione perché un cattolico debba essere emarginato dall’ impegno nella società. Sono stato colpito delle parole di papa Francesco, quando ha detto: non avete il diritto di lasciarvi escludere della vostra società, dal vostro paese.
Queste etichette l’hanno ferita?
Sappiamo molto bene che è stato difficile e in molte regioni del mondo è ancora difficile essere cristiani, che molti cristiani sono perseguitati per la fede. Non è il mio caso, ma osservo con stupore che oggi quando si accetta di riconoscere che si è cristiani si è sempre sospettati di difendere una comunità più delle altre. Credo che siamo chiamati come cittadini, qualunque sia la nostra confessione, a servire il bene della società e che ognuno possa contribuire. I cristiani naturalmente devono avere il diritto nell’Europa che è nata su un patrimonio comune di parlare del loro futuro. Che abbiamo fatto della nostra cultura?