Agorà

Reportage. L’Europa si è fermata a Belgrado

DAVIDE RONDONI giovedì 18 febbraio 2016
Belgrado, la 'bianca città' accoglie me e la mia guida in un giorno di sole di febbraio. Cosa strana, da queste parti. La città sui due fiumi di solito in questo periodo è stretta nella morsa del freddo e della neve. Invece è un febbraio tiepido, una delle tante cose strane di questa epoca. L’altra cosa strana me la rammenta subito l’uomo buono e vociante che guiderà l’auto in questi giorni, Majko, un gigante. «Perché ci hanno bombardato?». La domanda nell’abitacolo dell’auto tornerà più volte in questi giorni passati tra poeti, lavoro, ristoranti, musicanti e passeggiate solitarie e silenziose. Ora che la guerra che ha frantumato la ex Jugoslavia è passata dalla cronaca a quel limbo che sta tra il passato e la storia, ora che abbiamo altri conflitti negli occhi sembra quasi che quella guerra feroce e incomprensibile sia un fantasma che viene a toccarti una spalla: «Perché ci hanno bombardato?». Ogni tanto in questa città grande come Milano e in bilico tra passato e modernità appare un palazzo sventrato da quei bombardamenti. E in una delle mie passeggiate solitarie, davanti al palazzo del Parlamento, ho veduto le foto esposte di tante vittime di quella guerra. Tanti ragazzi di vent’anni... Una faccia tra tante mi colpisce. È un ragazzo bellissimo, è morto all’età che ora ha mio figlio. Quello accanto lo stesso, e tanti altri. Nato nel ’79 morto nel ’99, recita la scritta sotto ai nomi in carattere cirillico... Jarek, Dagobert, Josip... L’uomo buono e vociante, molto religioso e molto preoccupato, che si rivolge a me sa bene che l’Italia fornì le basi logistiche per quei bombardamenti, e anche qualcosa di più. All’epoca il governo di D’Alema fu inondato di critiche. L’amico Dalla che amava il mare Adriatico fece quella canzone Ciao sugli aerei che partivano portando bombe. Ma il gigante buono pensa come tutti qui che l’Italia sia in realtà un Paese cugino, anzi fratello. Che siamo stati un po’ costretti a farla anche noi quella orrenda guerra. Ora ci sono un sacco di italiani che lavorano. E Davide Clementi, da poco direttore del nostro Istituto di cultura, mi conferma: «L’Italia è il primo amico della Serbia, stiamo aiutandoli a entrare in Europa». L’Europa, appunto... Uno dei risultati dei bombardamenti è stato che ora in centro a Sarajevo non servono più vino, mi dice una signora. Noi abbiamo avuto i turchi a dominarci per 500 anni. Non li vorremmo più. Belgrado, città chiara col suo bellissimo ponte colorato, i palazzi che parlano ancora di una capitale satellite dell’ex impero sovietico, è un posto in bilico. Non solo in bilico tra generazioni: qui i ragazzi somigliano a tutti i ragazzi di Milano o Firenze, sanno l’inglese, cercano lavoro, bellissime le ragazze, fieri i ragazzi, alcuni marchiati dalle antiche origini turche altri da quelle slave del nord. Ma anche tra un passato feroce e un futuro incerto. Anna, una giovane architetto dagli occhi d’acqua triste, dice: «A quattordici anni sono scappata da Pristina per i bombardamenti». I nostri figli a quattordici anni non hanno vissuto queste cose. «Occorre fare ancora un lungo lavoro di riconciliazione », aggiunge don Andrea, giovane sacerdote con gli occhi buoni e chiari fuori dalla messa della domenica, celebrata in inglese, nella piccola linda chiesa di Cristo Re. Due fiumi, due cuori, due alfabeti... È una grande capitale di un piccolo stato, ora. Era una capitale di un grande e composito stato, di uno stato fasullo, esploso dopo la fine del regime di Tito per l’emergere di tensioni covate a lungo e per l’incapacità politica di gestire le differenze. Ma non in un Paese lontano d’Africa, ma in Europa. Ah, l’Europa... I Serbi hanno picchiato duro. Il loro leader, Slobodan Milosevic è diventata nell’immaginario occidentale l’incarnazione del male. Le cronache di quei mesi parlano di violenze efferate, di esodi, di deportazioni. Le contro- rappresaglie degli albanesi contro i Serbi altrettanto dure. Le cronache poi riportano la morte di Milosevic dopo l’arresto del tribunale internazionale, di centinaia di raid aerei Nato sulla Serbia. Ivo Andric, premio Nobel serbo-croato racconta nel suo grande romanzo storico, Il ponte sulla Drina, le efferatezze che da queste parti si sono compiute anche nei secoli passati. Ma racconta del ponte che ha sempre legato popoli vicinissimi e lontani. Strano destino di questa terra... Majo Danilovic, popolare e stimato poeta di Belgrado mi conferma: «Dico spesso che vengo da nessuna parte e da tutto il mondo, sempre alla ricerca della mia identità personale. Avevo scritto una volta: “La poesia ha creato il cielo, le stelle sono i suoi figli…”. Mi sento parte del corpus della poesia europea. Sì, davvero, appartengo a questo posto europeo, formandomi come poeta nella migliore tradizione della poesia europea, soprattutto quella italiana e francese». Questo è un Paese nella zona turbolenta in Europa, con diversi e forti patrimoni storici e culturali, è punto di schianti, ma anche un punto di incontro delle diverse mentalità e interessi. E la sua cultura appartiene all’Europa. Sì, è un punto di 'schianti' come dice Danilovic. E di fusioni. Il grande Danubio si fonde con la Sava, sotto il Castello che ha dato origine all’insediamento di Belgrado. Le persone fanno jogging lungo le rive, famigliole sui pattini o in bici. Aggiunge il poeta Danilovic, che sarà in Italia a Verona all’Accademia Mondiale della Poesia il 19 marzo prossimi: «Belgrado è la capitale della compassione e della grande affabilità, con la sua energia sa formare anche i nuovi-arrivati. Anche se io sono originario di un posto che si chiamava Jugoslavia, la Serbia è il Paese in cui mi sono formato, umanamente, professionalmente e poeticamente. Qui ho compiuto la mia maturazione contemplativa e poetica, con la magia degli scrittori importanti di tutta la regione ex Jugoslava, come ad esempio Andric, Krleza, Miljkovic, Selimovic, Crnjanski, Kis, e i tanti altri poeti e prosatori. Mi sento un poeta serbo fortunato e orgoglioso, essendo in un ambiente che altamente rispetta la letteratura e la poesia».  L’Associazione Nazionale degli Scrittori ha sede in un bel palazzo in centro. Lo era pure di quella Nazionale ante-schianto della Jugoslavia. Ha la sobria vetustà dell’epoca sovietica, ma coloro che la animano ora non hanno nulla del funzionario grigio e fedele. Sono uomini malinconici e allegri, poeti e scrittori che ti offrono grappa e hanno gli occhi sinceri. Sul fiume, invece, sotto il grande ponte c’è un ristorante, si chiama Stenka. È un posto strano e magico. Lo anima Rada, una donna dagli occhi scuri e un dolore piantato come un pugnale nell’anima. È una filologa e traduttrice di valore, ma ha voluto dedicarsi alla poesia fuori dalle Università. Intorno a un grande camino c’è sempre qualcosa da mangiare per gli scrittori squattrinati. È la sua vera accademia, abitata da poeti e da suonatori di musica zingara e violentemente bella. Abbiamo cantato, ballato. Nelle chiese ortodosse si possono sentire canti profondi come il mare e alti come il cielo. Qui nel ristorante di Rada si sentono canti malinconici come il vento e allegri come il buon vino. Nella città bianca vicinissima e lontana due fiumi si incontrano, due canti, due alfabeti. E due possibili destini per quel che chiamiamo Europa.