Reportage. Nella baraccopoli dove si suona Beethoven
Proponiamo in queste colonne alcuni stralci del reportage realizzato da Sergio Ramazzotti e pubblicato sul nuovo numero della rivista “Africa”. Il bimestrale, diffuso in abbonamento postale, è impegnato a svelare il volto meno conosciuto del Continente nero raccontiando frammenti di vita, spezzoni di realtà, storie ignorate dai grandi media. Sull’ultimo numero si parla, fra l’altro, della guerra infinita del Sud Sudan, delle rotte dei migranti, delle fragilità del Ciad, di una scuola di eccellenza in Sudafrica, dei progetti di sviluppo sostenibile del Togo, degli ippopotami del Camerun, degli italiani che vivono in Etiopia, dei pigmei delle foreste del Congo e delle “tribù” metropolitane sudafricane. Per informazioni, africarivista.it o 036344726.
La musica, scrisse Claude Lévi Strauss, è «una macchina per sopprimere il tempo». A Korogocho, una delle più vaste baraccopoli di Nairobi (fra i duecento e i trecentomila abitanti), da qualche tempo la musica serve a sopprimere anche lo spazio, a far dimenticare lo squallore e la violenza, a curare le ferite dell’animo e in alcuni casi ad aprire una porta a un futuro che, per chi è nato ai margini dell’enorme discarica a cielo aperto che è il simbolo dello slum, non era mai stato possibile nemmeno sognare. Prima del 2008, nessuno a Korogocho aveva mai sentito suonare un brano di Bach o di Beethoven. Fu quello l’anno in cui una giovane keniota di nome Elizabeth Njoroge decise di fondare una scuola di musica classica per bambini e adolescenti nel cuore della baraccopoli, proprio accanto alla discarica. Sorse quasi per gioco: alcuni flauti di plastica, uno spazio messo a disposizione nell’oratorio dalla parrocchia St. John, un manipolo di volontari disposti a sudare per insegnare a leggere uno spartito a un gruppo di mocciosi ingestibili. «Non so nemmeno io perché ho messo su tutto questo», ammette Elizabeth. In effetti non è neppure una vera musicista. Dopo la laurea in biochimica in Canada, ha lavorato in un ospedale in Scozia e in una farmacia a Londra, benché la passione per la musica l’avesse portata a cantare nei cori della Scottish National Orchestra e della London Symphony Orchestra. Di ritorno in Kenya, capì di non voler passare il resto della vita in un laboratorio chimico. Il caso la portò a Korogocho, un prete della St. John buttò lì che sarebbe stato bello se i bambini avessero avuto l’opportunità di imparare uno strumento, il tempo fece il resto. «La scuola mi è esplosa fra le mani e oggi non posso più abbandonarla – dice Elizabeth –. E non ci penserei nemmeno, perché mi dà soddisfazioni enormi ». Negli anni, alcuni dei suoi allievi sono scomparsi, «qualcuno temporaneamente, qualcuno per sempre», altri sono approdati a un luogo di cui non sospettavano nemmeno l’esistenza – il conservatorio di Nairobi – e hanno davanti a sé un futuro da musicisti. Anche per quelli con meno talento la musica è l’unica opportunità di sopprimere il tempo e lo spazio nei quali, nell’inferno di Korogocho, spesso per un bambino è troppo doloroso vivere: molti dei giovani con cui ho parlato alla scuola mi hanno raccontato di un passato terrificante come affiliati alle gang. A dodici anni c’era chi aveva già partecipato a parecchi assalti notturni a scopo di rapina, aveva visto uccidere, o aveva dovuto farlo. «Ai più piccoli fra noi non davano ancora la pistola, quella era per i più grandi – racconta “Alfred”, che ha diciott’anni. «Noi avevamo solo un machete. Però già alle prime uscite i capi ammazzavano qualcuno sotto i nostri occhi, e ci obbligavano a guardare: serviva a indurirci». Alfred è uno di coloro che la musica ha redento. Quanto a cancellare le tracce di quel passato dalla sua anima precocemente invecchiata, è probabile che nemmeno Mozart in persona potrebbe tanto. Brian Kepher ha da poco compiuto vent’anni. Nel 2008 era uno dei tanti chokora, ragazzi di strada dello slum. Quando Elizabeth lo incontrò, gli chiese cosa volesse fare da grande. Rispose che un giorno, mentre vagava per la città, aveva sentito una banda militare intonare l’inno nazionale e da allora aveva desiderato essere come quei musicisti. Quel suono gli aveva messo i brividi. Elizabeth lo prese con sé alla scuola di musica e al tempo stesso lo convinse a tornare alle superiori per completare gli studi, offrendosi di pagare le spese. Brian finì il liceo e oggi è al secondo anno di università, facoltà di musica. «Voglio diventare un direttore d’orchestra », mi ha detto. E ha aggiunto in italiano: «Un maestro». Elizabeth è certa che ce la farà, perché Brian è uno di quelli che la musica l’hanno dentro. «Mi piacerebbe tanto uno strumento da tenere a casa, per esercitarmi anche la sera », dice Brian. Nessuno dei trecento allievi della scuola di musica ha mai portato uno strumento a casa: non ce ne sono abbastanza neppure per le lezioni quotidiane, né per l’orchestra (“Ghetto Classics” il suo nome) che Elizabeth ha messo in piedi con una trentina dei più bravi e che una volta al mese si esibisce nell’oratorio della St. John: «Qualsiasi brano vogliamo suonare, ci manca sempre qualche strumento, allora riscriviamo le partiture in versione semplificata». La scuola dispone di una dozzina di violini (di fabbricazione cinese, i più economici), qualche violoncello, pochi preziosi sassofoni, clarinetti e trombe, due tromboni e una valigia di flauti di plastica per gli allievi più piccoli: tutto quel che Elizabeth è riuscita a comprare con le donazioni in questi sette anni (per chi voglia contribuire: www.artofmusic. co.ke), e tutto gelosamente custodito sotto chiave in un grande armadio di ferro in un locale della parrocchia. In rare occasioni, per incoraggiare qualche allievo più promettente, Elizabeth gli ha regalato uno strumento tutto per lui (un bambino che ha avuto un violino le ha scritto: «Lo amerò e lo proteggerò per tutta la vita come se fosse mio figlio»). Però non ha mai permesso che lo portassero a casa: «Temo che i genitori possano venderlo». La scuola di Korogocho ha cambiato molte vite. Forse non è esagerato dire che ne ha salvate alcune. Chissà cosa sarebbe stata quella di David Otieno, che ha dicott’anni, studia il violino da due e abita in una baracca con la madre, tre sorelle e due fratelli. «La musica mi ha reso libero – dice –. Al mattino vado a scuola, il pomeriggio vengo in parrocchia a fare pratica di violino almeno un paio d’ore: quando torno a casa sono troppo stanco per aver voglia di fare altro». Il che potrebbe suonare come la negazione di quanto aveva appena proclamato, se non aggiungesse: «Grazie alla musica non ho il tempo di bighellonare, così non rischio di cadere nella tentazione delle gang. Se vivi a Korogocho, prima o poi ci finisci invischiato: vedi i tuoi coetanei che sfoggiano vestiti alla moda, li vorresti anche tu, e prima di rendertene conto ti hanno trascinato in una banda e sei dentro fino al collo in un giro di droga e di violenza». A insistere perché David venisse a conoscere la scuola di musica è stata Celine Akuamu, un’allieva che suona il clarinetto. «Aveva il sospetto che stessi per imboccare una cattiva strada», dice David. Oltre ad aver aperto le porte del conservatorio ad alcuni suoi allievi, Elizabeth ne ha portati dodici nell’orchestra classica creata dalla Fondazione di una compagnia telefonica (Safaricom) – una settantina di elementi selezionati nelle scuole della capitale che tutti i sabati si ritrovano per le prove negli uffici vuoti dell’azienda – e che ha realizzato uno dei sogni di Brian, visto che lo scorso maggio ha suonato l’inno nazionale alla presenza del presidente della repubblica. «Per chi viene da Korogocho, essere in quell’orchestra è come andare sulla luna, una conquista incredibile – spiega Elizabeth –. Purtroppo è anche un motivo di cruccio: trovarsi lì, al fianco di coetanei tutti di estrazione sociale decisamente superiore, li rende terribilmente consapevoli della loro condizione. Si rendono conto di essere vestiti male, con le camicie strappate e le scarpe sfondate. Vedono che gli altri storcono il naso perché sentono sulla loro pelle l’odore dello slum. Non c’è niente da fare, chi vive a Korogocho si porta addosso la puzza della discarica. Ho creato qualcosa di molto complicato da gestire. Non si tratta semplicemente di insegnare musica; spesso mi trovo a tentare di ricostruire delle vite che sono state fatte a pezzi. Per molti di questi bambini sono una confidente, una psicologa, a volte una madre».