Agorà

Intervista. Don Panizza, prete antimafia: BEATITUDINI contro la 'ndrangheta

Antonio Maria Mira mercoledì 5 novembre 2014
«Anche nella Chiesa ci sono stati sicuramente dei ritardi sui temi della mafia e della legalità. Molti documenti importanti, veri gioiellini, ma è mancata una Pastorale». Anche se aggiunge che «molti preti hanno lavorato in silenzio. Senza di loro il nostro Sud sarebbe molto peggio». Non è tenero  don Giacomo Panizza, sacerdote bresciano «prestato», come sottolinea, da più di trenta anni alla Calabria. Nel 1976 fonda a Lamezia Terme 'Progetto Sud', comunità di gruppi autogestiti, di famiglie aperte e di servizi, iniziative di solidarietà, condivisione, accoglienza per soggetti svantaggiati. Dal 2002 vive sotto tutela dopo le gravi minacce di morte del clan Torcasio per aver deciso di prendere il gestione un palazzo confiscato da destinare ai disabili. Sono poi seguiti molti attentati, anche alle auto dei disabili. Ma respinge seccamente l’appellativo di 'prete antimafia'.  «Noi preti abbiamo centomila cose da fare per predicare l’amore e costruire la pace e la giustizia. Poi se c’è anche da resistere ai mafiosi, dobbiamo resistere. Anche se è meglio che si convertano. Noi preghiamo perché cambino. E facciamo di tutto perché cambino. Venti giorni fa quando ci hanno messo un’altra bomba hanno scritto «prete antimafia». Ma in questa veste non mi ci trovo. Io mi trovo con la gente dove costruiamo la vita buona, la libertà, un po’ di sviluppo, quelle cose che ci servono al Sud». Questo e altro don Giacomo lo racconta nel suo nuovo libro La mafia sul collo. L’impegno della Chiesa per la legalità nel nostro Paese  (Edizioni Dehoniane Bologna) nei prossimi giorni in libreria. «È un libro sulla Pastorale della legalità, un libro di Chiesa. Per parlare a sacerdoti, catechisti, persone di Chiesa che educano, per avere dei punti solidi su questo argomento». È necessario un libro di questo tipo? Non ci sono documenti della Chiesa? «Ci sono documenti di varie Conferenze episcopali regionali, pochi a livello nazionale. In particolare Educare alle legalità del 1991, ormai quasi dimenticato. Bei gioiellini, ma occorre più progettazione pastorale, più formazione». Ritardi anche nella Chiesa? «Ci sono stati sicuramente. E quando si parla di legalità spesso è su tutt’altri temi come se in mezza Italia non fossero nate le mafie e nell’altra mezza non fossero arrivate. Abbiamo messo queste parole in frigorifero invece che nella vita, le abbiamo messe nei documenti invece che nella Pastorale che deve diventare pratica, non teorica». Ma lei nel libro parla anche di tante storie positive di Chiesa. «Tante cose che ho visto nel Sud. Preti che nella catechesi dicono che è giusto pagare le tasse, perdonare chi ti fa del male. Preti che aiutano le donne dei clan a riuscire a stare in casa, a sopportare educando i figli in altra maniera. Bastano poche parole, non sono necessari libri o mille prediche. Queste sono tutte cose che si fanno. Se dico che le faccio io le assommano alle attività sociali. No. Queste sono cose da preti. Che la gente sappia che tanti preti non possono dirlo nella predica o in un’intervista, ma lo fanno. E sono tanti. Altrimenti sarebbe molto peggio il nostro Sud. Altrimenti saremmo sprofondati». È l’arma migliore contro la mafia? «Se usiamo le loro armi abbiamo perso. La vita non la impostiamo contro qualcuno. E quando siamo contro qualcuno lo facciamo per affermare che siamo 'per' un sogno, per la pace, per la libertà». Nel libro ammette di aver avuto paura quando la condannò pubblicamente l’anziana donna del clan Torcasio. «Molta paura. Mi hanno insegnato che sono le donne a dire ai giovani cosa fare, perché bisogna vendicarsi, che fanno perpetuare la mafiosità della famiglia. Mentre i figli mi dicevano che mi uccidevano io quasi non prestavo attenzione, invece la tremarella mi è venuta quando lei, da vera capo clan, ha pronunciato la sentenza. E infatti da allora mi hanno messo sotto tutela». Nel libro si parla molto degli interventi di Papa Francesco sulla mafia. «Sognavo che facesse queste riflessioni e sono contento perché bisogna dire a noi Chiesa che i mafiosi sono scomunicati. Sono convintissimo, e non me lo toglie dalla testa nessuno, che anche quando Giovanni Paolo II ha parlato in Sicilia, quella rabbia contro i mafiosi era un’arrabbiatura anche contro la Chiesa che non capisce, non la Chiesa generica, ma le persone, uomini e donne, piccoli e grandi, la mafiosità che c’è anche tra noi. Quelli che la dottrina è una cosa e l’operatività è un’altra. Papa Francesco ha poi voluto dire a tutti noi di Chiesa che i mafiosi sono davvero mafiosi, sono davvero peccatori, non possiamo dargli alibi». Lei si occupa degli ultimi. Facendo così lotta contro la ’ndrangheta? «Sono stato prestato, da Chiesa a Chiesa, per questi temi, che all’epoca non si chiamavano legalità ma giustizia. Oggi continuo a fare queste belle cose insieme a tanta gente di Calabria. Ed è questa la giustizia che abbiamo in mente. Se poi è un politico che fa lo sgambetto, o un mafioso, o uno che vuol fare clientele o imbrogliare, è tutta illegalità». C’è dunque un collegamento tra giustizia e legalità? «La parola giustizia è la più citata nella Bibbia, soprattutto nel Nuovo testamento con una bellezza incredibile, come nelle Beatitudini. La legalità è lì. Giustizia e legalità sono aspetti della carità». Vangelo manuale contro le mafie? «Non solo di contrasto. Il Vangelo ci dice di fare giustizia e questo naturalmente si porta dietro che l’ingiustizia non si fa, che si deve bloccare. Il sogno è la bellezza di vivere in una regione di giustizia e invece in Calabria di ingiustizia ce n’è ancora tanta. Ma non solo in Calabria».