Anniversari. «Parziale, appassionata, politica». E Baudelaire inventò la critica d'arte
Charles Baudelaire in una fotografia del 1860
«Un metodo semplice per conoscere la misura di un artista sta nell’esaminare il suo pubblico» scriveva Baudelaire in una cronaca del Salon del 1846. Oggi, ugualmente, si dovrebbe assumere come metodo critico lo studio accurato del pubblico che va alle mostre d’arte e si mette in coda anche per ore all’ingresso di un museo pur di entrare nel “cerchio magico” di quelli che, come una comunità che pende dalle labbra del suo santone, partecipano dell’aura che il mito diffonde accrescendo il culto di un dio narciso. E Baudelaire, illustrando il metodo con esempi dell’epoca, poteva scrivere che mentre Delacroix aveva dalla sua un pubblico di pittori e di poeti, Horace Vernet (che letteralmente disprezzava) faceva conto sui militari delle caserme (era infatti celebre per i quadri di battaglia) e il modesto Ary Scheffer – chi oggi si ricorda di lui alzi la mano –, aveva un pubblico di pie “donne estetiche” «che si vendicano delle loro perdite bianche dandosi alla musica religiosa». Crudele con le donne, lo sappiamo, Baudelaire invitava chi avesse trovato caustiche le sue parole a rileggersi i Salons di Diderot: «Tra vari esempi di carità rettamente intesa – scriveva Baudelaire –, troveranno che il grande filosofo, a proposito di un pittore che gli era stato raccomandato, perché aveva da sfamare parecchie bocche, sostiene che bisogna abolire o i quadri o la famiglia».
Nella critica d’arte di oggi si sente la mancanza di questo veleno critico. Un veleno che sia l’antidoto al conformismo del facile consumo. Il tono ricorrente oggi nel linguaggio di una pletora di non critici che – pavoneggiandosi in abiti che sembrano livree di uccelli menagramo: il nero assoluto dalla canottiera alla punta delle scarpe –, si definiscono, quasi fossero buoni samaritani, curatori (quelli che godono della loro sollecitudine, però, non sono i veri bisognosi, ma artisti che giocano a fare i re Mida della finanza); ecco, il tono dei non critici (che odiano la critica perché potrebbe far cadere i valori borsistici dei loro beneamati) è quello dello spot compiacente, delle parole brillanti che indorano l’evidenza finta; è quello di chi è privo di teoria: che è saper vedere in profondità ed esercizio del giudizio di valore. Degas, che di borsa se ne intendeva se non altro per aver pagato di tasca propria il crac della banca di famiglia fondata un secolo prima dal nonno, Degas fu il primo a dire che ormai l’arte stava diventando un gioco di borsa.
Baudelaire ha inventato un modo di fare critica d’arte. E ancora oggi ne è il re insuperato. Unisce il giudizio estetico, la consapevolezza storica, un gusto sicuro, senza venir meno alla qualità letteraria della scrittura (il suo quoi è anche un come). Longhi, Testori e altri ne hanno subito il fascino profondo, ma, nonostante la loro indubbia grandezza, non raggiungono quella fragranza e chiarezza verbale che fa di Baudelaire un maestro indiscusso (chi si accinge oggi a fare critica dovrebbe tenere i suoi scritti d’arte come livre de chevet).
Fin dalle prime righe delle sue cronache d’arte, Baudelaire ci dice che sparare sul borghese è uno sport vano perché «non ci sono più borghesi da quando il borghese ricorre a sua volta a questo termine offensivo». Non amava genericamente il popolo come entità capace di un gusto, anzi un po’ lo inquietava per le forme cieche che poteva assumere (Canetti lo ha preso a esempio), ma capì che occorreva mischiarsi alla folla. La critica ha dei doveri, secondo Baudelaire. Se vai a una mostra collettiva che ritieni giusto recensire, devi dedicare due righe anche a quelli che non ti convincono, che ti deludono, il loro coraggio (o vanità) nel mettersi in mostra ha diritto alla crudeltà (franchezza) nel giudizio critico. Perfido, ma giusto. Così Baudelaire dedica qualche spazio a ciascun artista che esponga sulle pareti del Salon. Della maggior parte di loro oggi non ricordiamo nemmeno un quadro, poco importa: quando ne scrive Baudelaire sta parlando di idee, di passioni, di forme, del nuovo e del vecchio. Non ama le “cose finite” perché, dice, si dimentica spesso che «c’è un abisso tra un pezzo fatto e un pezzo finito, e che in generale ciò che è fatto in tutto non è finito del tutto e che una cosa molto finita può non essere per nulla fatta – che il valore di un tocco spirituale, autorevole e ben piazzato è enorme».
Nel Salon del 1845 – conclude – si vede la stessa roba degli anni precedenti, e le uniche sorprese che si prende la pena di ribadire sono Haussoullier, Delacroix e Decamps. Oggi chi ricordiamo? Delacroix. Vuol dire che Baudelaire è stato di manica larga? No, vuol dire che Delacroix oltre a essere un genio pittorico, era un pittore più assoluto degli altri due. E la prosa di Baudelaire non ne è minimamente scalfita. Il critico vedeva cose che un secolo dopo possono risultare poco interessanti, ma non significa che allora non avesse visto giusto. In definitiva: «Il pittore, il vero pittore sarà colui che saprà strappare alla vita odierna il suo lato epico, e farci vedere e comprendere, mediante il colore e il disegno, quanto siamo grandi e poetici con le nostre cravatte e le scarpe di vernice». Siamo borghesi, siamo persino un po’ ridicoli, ma siamo veri, sta dicendo, e la verità dell’arte è quella che ci fa capire come siamo. E nel Salon 1846 li richiama all’orgoglio: «Borghesi, voi – re, legislatori o negozianti –, avete istituito collezioni, musei, gallerie. Alcune di quelle che sedici anni or sono erano aperte solo agli accaparratori hanno aperto le porte alla massa».
I brani dove descrive la Morte di Marat di David sono da manuale. Il divino Marat, la ferita sacrilega, la perfida lettera: si avverte l’ironia, ma anche l’ammirazione per la retorica davidiana e «il quadro ha tutta la fragranza dell’ideale»; in esso c’è «qualcosa di tenero e acuminato». In realtà, non sta parlando del quadro, sta psicoanalizzando David, sta raccontando com’era il pittore che inventò i rituali della rivoluzione, che decise esecuzioni capitali e finì i suoi anni rappresentando Bonaparte au mont Saint-Bernard, «il solo Bonaparte poetico e grandioso che possieda la Francia». E anche qui parole caustiche: «Esiste una cosa di gran lunga più pericolosa del borghese, ed è l’artista-borghese, che è stato creato per interporsi tra il pubblico e il genio, nascondendoli l’uno all’altro» (e se applicassimo queste parole a Damien Hirst, Jeff Koons e Maurizio Cattelan calzerebbero loro a meraviglia).
A che serve la critica, si chiede nel 1846? Intanto la migliore «è quella che riesce dilettosa e poetica; non una critica fredda e algebrica, che, col pretesto di tutto spiegare, non sente né odio né amore, e si spoglia deliberatamente di ogni traccia di temperamento» (temperamento è la parola chiave, quello che cerca anche in un artista o in un quadro, ed è ciò che distingue un artista supremo da uno soltanto grande, perché sente col cuore «quasi senza che lo sappia»). E poi la celebre professione di fede: «Perché sia giusta, perché abbia la sua ragion d’essere, la critica dev’essere parziale, appassionata, politica, vale a dire condotta da un punto di vista esclusivo, ma tale da aprire il più ampio degli orizzonti». C’è una definizione di critica che sia più pertinente oggi? Non mi pare, tanto più che la critica d’arte – non soltanto italiana – è piena di ragionieri e di notai che per decidere che cosa scrivere di un artista consultano prima il listino della borsa.
Si è sempre detto che quando dice «parziale» Baudelaire sta affermando che la critica deve essere faziosa, sommandovi appunto l’aggettivo «appassionata»; credo, invece, che la giusta collocazione venga dalle parole successive: «un punto di vista esclusivo» che apra a grandi orizzonti. Che voli alto, guardando al particolare per comprendere quanto di universale sa esprimere. E se «i difetti di Delacroix sono a volte così appariscenti che anche l’occhio meno esercitato li scorge immediatamente» tuttavia «è noto che i grandi geni non si sbagliano mai a metà, e hanno il privilegio dell’enorme in ogni senso».
Il ritratto di Baudelaire dipinto da Gustave Courbet tra il 1848 e il ’49.