Il ricordo. Battiato a un anno dalla morte: un oceano di gratitudine che non finisce
Franco Battiato, scomparso un anno fa il 18 maggio 2021 nella sua casa di Milo all’età di 76 anni
Ti sei mai chiesto quale funzione hai? È la domanda che Franco Battiato si poneva e rivolgeva all’ascoltatore 50 anni fa in Pollution, pochi mesi dopo aver esordito interrogandosi, in Fetus, sul fenomeno del concepimento e della venuta al mondo, sul processo di una cellula che diventa persona. Già a sette anni in un tema scolastico si chiedeva: io, chi sono? Nell’album Il vuoto quel dilemma è diventato il titolo di una canzone, poi di un libro-intervista. Essenziale domanda che per Battiato conteneva anche la risposta stessa: io, sono. Anche la sua voce, così interiorizzata e unica, riflette il senso profondo di una ricerca di sé, della propria essenza, nel contempo corporea e spirituale.
Risonanze e intime vibrazioni, corde interiori e armonici, come quelli che voleva infinitamente espandere nell’Egitto prima delle sabbie, l’album capolinea del suo periodo sperimentale e detonatore della cosiddetta svolta pop iniziata nel 1979 con il dirompente L’era del cinghiale bianco e passata almeno per altri due album fondamentali: La voce del padrone dell’81 e Fisiognomica dell’88, il disco che affascinò le alte sfere vaticane e che portò l’artista siciliano a esibirsi l’anno dopo in Aula Paolo VI davanti a Papa Wojtyla.
Negli ultimi anni di vita Battiato aveva abbracciato sempre più la preghiera, insieme alla meditazione. Pregava per sé e per gli altri e meditare costituiva il veicolo privilegiato per entrare nella dimensione insondabile dell’anima, a partire dalla propria. Le nostre anime è stato dunque il significativo titolo di uno dei suoi ultimi inediti e della testamentaria poderosa raccolta del 2015, Anthology. Battiato aveva sempre cercato l’Uno, lo Sconosciuto. Ciò a cui obbedisce tutto l’universo, come ha cantato in duetto con la conterranea Carmen Consoli.
Quell’Amore umanamente inarrivabile. E non ha mai abdicato rispetto al “folle” tentativo di comprenderlo nella sua potenziale pienezza. Perché era forte dell’“arma” più potente: la musica. Foriera di quel sentimento popolare che nasce da meccaniche divine, con la sua universale trasmissibilità. Ed è stata, la musica dell’anima, la sua missione, la sua eredità. Quel suono eloquente e penetrante come un oceano di silenzio, ciò che desiderava di lui restasse alla sua partenza dal mondo.
Il 18 maggio sarà trascorso un anno dal suo estremo passaggio per la “porta dello spavento supremo”, quell’attraversamento del bardo (il Bardo Thodol è un testo della letteratura tibetana che tratta della condizione dopo la morte, quando la coscienza, o l’anima, è separata dal corpo) su cui Battiato aveva incentrato un documentario uscito in dvd nel 2014. Aveva lì dato voce a diversi eterogenei contributi (lama tibetani, psichiatri, scienziati, filosofi, ricercatori e persino improbabili viaggiatori astrali) per tentare di gettare uno sguardo sull’aldilà.
Tra i protagonisti di quell’indagine ai confini dell’umanità c’era anche il religioso cattolico padre Guidalberto Bormolini, assistente spirituale e tanatologo che vive e lavora nella comunità dei “Ricostruttori nella preghiera”, autore del libro Questo tempo ci parla (appena uscito per TS Edizioni) in cui riflette anche sulla forza trasformativa della musica e della canzone. Padre Bormolini ha vissuto da vicino gli ultimi anni di Battiato, ha presieduto la cerimonia di addio a Milo e ne ha raccolto pensieri e confidenze fin dalla diagnosi di mieloma, la subdola patologia che dal novembre 2017, con la caduta in casa e la frattura di femore e bacino, ha poi determinato la definitiva uscita di scena dell’artista siciliano.
«Franco aveva letto alcuni miei scritti sul tema dell’accompagnamento alla morte, mi ha cercato e mi ha invitato a Milo – racconta, rievocando il loro primo incontro per Attraversando il bardo –. Benché abbia spesso incontri su un certo tipo di tematiche non ero mai stato così tante ore a parlare con una persona di questioni attinenti il senso dell’esistere e il divino. Ricordo che mi aveva poi suonato alcune sue canzoni al pianoforte e si era interessato ai miei lontani studi di chitarra classica oltre che alla mia vecchia professione di liutaio a Desenzano, sul lago di Garda, dove avevo una bottega».
L’arte liutaria Bormolini l’aveva imparata a Milano, giovanissimo, poi l’incontro con padre Gian Vittorio Cappelletto (il gesuita fondatore dei Ricostruttori nella preghiera) e infine la consacrazione religiosa e l’esperienza conventuale. «Franco apprezzava molto la vita monastica, era stato sul monte Athos e riteneva che le colonne che reggono il cielo sono i monaci e gli eremiti». Battiato stesso, del resto, negli ultimi anni si era sempre più sottoposto a regola nella sua dimora ai piedi dell’Etna. Il tempo che dedicava alla meditazione era via via aumentato.
«Franco aveva un impegno doveroso: meditare con regolarità. Qualsiasi cosa stesse facendo, quello era un appuntamento a cui non voleva rinunciare. Sembrava che il mondo esterno gli stesse sempre più stretto ed era proprio meditando che esprimeva il suo bisogno di altro. Spesso mi telefonava alla sera – svela Bormolini – e ricordo che una volta mi commosse profondamente. Avevamo scambiato soltanto due parole di saluto e subito mi disse: preghiamo insieme?».
Battiato negli ultimi anni aveva approfondito sempre più la lettura di mistici cristiani e aveva voluto essere cresimato. Anche se con la sua inesausta sete di Assoluto si era sempre abbeverato a diverse fonti, come la sua produzione musicale conferma tra riferimenti a Gurdjieff, al sufismo o all’esoterimso in senso lato. Aconfessionale («non sono cattolico, ma non sono buddista e neppure induista» aveva detto in un’intervista all’Osservatore Romano), si è sempre definito «uomo religioso e basta».
«Franco era apofatico, di Dio non amava parlare – sottolinea padre Bormolini –. E si stupiva di quelli che non credevano. Diceva: è tutto di una evidenza tale che non riesco a comprendere la negazione. Su questo eravamo in sintonia, anch'io non amo le definizioni di Dio. Del resto Dio lo si conosce soltanto con l’amore. Al di fuori dell’amore è inconoscibile e indescrivibile. Ecco, forse è così che si entra nella fondamentale dimensione del mistero. Franco l’aveva capito e cantato già nel suo primo disco pop, dove in Magic Shop parlava di supermercati coi reparti sacri che vendono gli incensi di Dior. Per questo oggi il rischio non è l’ateismo ma l’indifferenza “spiritualizzata”, il supermercato del sacro, appunto».
Di «testamento spirituale» parla Bormolini citando una delle ultime canzoni di Battiato, Lo spirito degli abissi. «Quando dice del desiderio di tornare a pregare con la tenacia dei padri del deserto, il punto chiave è proprio quella riscoperta della cristianità da parte di Franco. Gli aspetti evangelici sono ben espressi quando nel brano svela perché vuole pregare: per quelli che hanno perso da tempo la loro via, per chi non riesce a sopportare il dolore dell’esistenza. Qui esprime una forte dimensione di compassione. Altro che certa pseudospiritualità self service, su cui Franco metteva in guardia e ironizzava».
Per Battiato era diventato necessario dire la sua attraverso il pop, per raggiungere più persone. Voleva lanciare il più possibile nell’aria i suoi messaggi spirituali e civili. La sua rivoluzione musicale e “culturale” poneva al centro il “patriottismo” del pensiero (Up patriot to arms), scuotendo “l’animale” conformista (e materialista) che ci portiamo dentro.
«Da religioso - afferma Bormolini - a me non interessa se la spiritualità di Franco non sia stata cristianamente “ortodossa”, ma quante persone ha convertito al sentimento religioso e al sacro con le sue canzoni. A me interessa la bellezza che ha lasciato e quanta gente ha trasformato. E sono certo che il suo bisogno, dopo il periodo sperimentale, di diventare popolare non fosse per avere fama e fare soldi ma per veicolare il senso profondo della dimensione spirituale dell’esistenza a più gente possibile. Lui sapeva che proponeva contenuti della mistica al grande pubblico».
Battiato provò anche con il linguaggio audiovisivo a “parlare” di cose alte e altre. Ma sia il film Niente è come sembra sia il doc Attraversando il bardo passarono quasi inosservati sui mass media. Lui l’aveva messo in conto, così aveva organizzato una sorta di porta a porta tra visione e successivi incontri con il pubblico. Certo, meglio la sua musica, ovviamente. Così trasversale e non codificata, con il suo illimitato potenziale emotivo e vibratorio, infinitamente superiore all’immagine. Soprattutto così, con l’immediatezza sonora, senza il fardello della rappresentazione, l’artista può diventare autentico e puro tramite.
«La dimensione insondabile, di cui parla Battiato in Nomadi, nelle sue canzoni è presente appieno ed è l’ispirazione – spiega padre Guidalberto –. Lo ha confessato lui stesso quando ha detto che certi suoi brani gli sono venuti dall’alto, lui è stato solo un tramite. Viene da pensarlo per Oceano di silenzio o L’ombra della luce. Del resto la musica è trasformativa non per un ragionamento, ma di per sé. Addirittura quando lo stesso protagonista dell’ispirazione non la comprende interamente». Ecco la svolta dell’album Fisiognomica e del successivo Come un cammello in una grondaia del ’91, in corrispondenza con il suo ritorno in Sicilia, da Milano dove era arrivato da poco maggiorenne per intraprendere il suo cammino artistico.
«Cosa vuol dire essere un’immagine divina di questa realtà, come canta in E ti vengo a cercare? - continua Bormolini -. Vuol dire lasciare che il divino traspaia in noi, nonostante noi. In Battiato è stata però molto forte anche la dimensione sociale, a parte la breve e non positiva esperienza del suo incarico istituzionale alla Regione Sicilia. Pensiamo, una su tutte, alla canzone Povera patria. Ma anche a un brano meno noto come Conforto alla vita, che inizia con questa frase: “Nella sventura non ti colga sgomento”. E dice ancora: “Sii forte e sereno anche nei giorni dell’avverso fato”. Ecco, questo è ciò di cui ha bisogno oggi la gente laddove è in atto la distruzione della speranza e della fiducia. La nostra vita è minacciata quando non crediamo più che l’impossibile all’uomo è invece possibile. È proprio questo nostro tempo. In Stage door Franco dice: “Sapessi che dolore l’esistenza che vede nero dove nero non ce n’è”. In realtà c’è il nero, ma è l’ombra. Ed è proprio “quell’alba dentro l’imbrunire” che dobbiamo vedere. Un ribaltamento di prospettiva che è la fede. Perché la fede ti fa vedere quello che è nascosto. Quella di Battiato è pienamente espressa, basti pensare alla frase: “Ma se ti senti male, rivolgiti al Signore” di Fisiognomica».
Erano molti però a storcere il naso quando Battiato parlava di reincarnazione... «Ma per lui questo non era significativo. Franco desiderava soltanto che la morte non fosse percepita e vissuta come una mannaia, l’inizio del nulla e una definitiva fine. Voleva che fosse vista come spazio di trasformazione, perché dopo la morte diventeremo qualcos’altro. Per questo la sua ultima canzone è stata Le nostre anime, credeva che la morte è apertura al mondo del Mistero d’Amore. E spero che possa continuare a cantare per Lui e noi nella grande liturgia del cosmo».