Musica. Battiato, 50 anni fa “Fetus” il suo primo album
Franco Battiato (1945-2021): cinquant'anni fa usciva il suo primo 33 giri “Fetus”
In copertina campeggiava l’immagine di un feto umano e molti venditori non vollero esporlo nelle vetrine dei loro negozi di dischi. Ma settemila curiosi lo comprarono. Tanto vendette il primo album del semisconosciuto Franco Battiato, uscito 50 anni fa, nel gennaio del 1972. Arrivato a Milano dalla siciliana Riposto chiamato dal conterraneo cantautore Gregorio Alicata, dopo alcuni anni di canzonette e qualche 45 giri Battiato a un certo punto vira a 360 gradi, si fionda a Londra e per primo s’impossessa di un innovativo sintetizzatore acquistato direttamente dal produttore. È il Vcs3, l’atteso alleato (insieme al produttore Pino Massara con la sua Bla Bla Records) della rivoluzione musicale che da tempo covava in lui. Ed ecco Fetus, non a caso cellula originaria di tutta la sua futura cifra artistica. In quel concept album, ispirato anche dalla lettura de Il mondo nuovo di Aldous Huxley, Battiato compie un viaggio sonoro e testuale (con l’apporto letterario di Sergio Albergoni) sul senso della vita in una visione distopica, raccontando a modo suo il processo che porta dalla cellula alla nascita (i brani Fetus, Una cellula, Energia) fino alla dimensione spaziale (ci sono le voci degli astronauti che conquistarono la Luna che si dissolvono nell’Aria sulla quarta corda di Bach dando un senso di poetico straniamento metafisico) e a una trasformazione in macchina (Meccanica, Anafase, Mutazione).
«Fetus era un viaggio nel futuro – ricorda Eugenio Finardi, tra i primi a essere folgorato da quell’innovativo album –. Quando uscì, avevo appena conosciuto Franco. Era il periodo in cui frequentavamo Gianni Sassi, una fucina di idee: pubblicitario, discografico, fotografo, un grande creativo. Fu lui a immortalare Franco nella pubblicità del divano B&B e a farlo conoscere visivamente a mezza Italia». Inquadrato dal basso, sprofondato nella finta pelle rossa di quel divano, con il volto ricoperto da cerone bianco (sgretolatosi sotto i riflettori incandescenti dello studio fotografico aveva riempito la faccia di Franco di crepe simil lunari), Battiato diceva nel manifesto sei metri per tre: “Che c’è da guardare? Non avete mai visto un divano?”.
«Erano anni in cui a Milano c’era un nutrito gruppo di artisti che faceva controcultura, da Battiato a Alberto Camerini, da Demetrio Stratos a Claudio Rocchi, dalla Pfm a Roberto Cacciapaglia. E io facevo parte di quel giro lì – ricorda Finardi –. La generazione prima era invece capitanata da Jannacci, Gaber e Dario Fo. Loro vennere a vedere la nuova sede, in via Maroncelli (una vecchia fabbrica dismessa), della rivista “Re Nudo” che io e Camerini avevamo dipinto tutta di blu e a stelline d’oro. Jannacci a un certo punto disse a Fo che sembrava la Cappella Sistina prima di Michelangelo. Ma in tutto questo fermento Battiato era un discorso a sé, lui era su un piano tutto suo, non aveva un’intenzione politica, ma solo musicale, anzi più precisamente sonora. Era alla ricerca di un suo personale suono».
Suono che in Fetus è già ben riconoscibile. Spiccano in particolare gli arrangiamenti (peculiarità di tutta la produzione di Battiato, dal successivo pop alla classica con Genesi, Gilgamesh, Telesio) che mirano ad affrancarsi dall’idea di forma-canzone, così basati come sono sulle dinamiche sonore del Vcs3 e sull’uso dell’elettronica affiancata alle chitarre acustiche e al violino (strumento che volle poi studiare ed esplorare nella sua fisicità acustica con il futuro sodale Giusto Pio).
«Io che mi sono sempre riferito molto al mondo musicale londinese – spiega Finardi – ho subito considerato Battiato come il Brian Eno italiano, per quella capacità di sperimentazione e per l’uso così d’avanguardia del sintetizzatore. Nel mio primo album, Non gettate alcun oggetto dai finestrini, uscito nel 1975, nel brano Saluteremo il signor padrone, c’è proprio Battiato che suona il Vcs3 con lo pseudonimo di Franc Jonia. Se la Pfm aveva il primo Moog, che ne ha caratterizzato le sonorità, Battiato è stato il pioniere italiano del Vcs3. Ciò che mi colpisce è quanta coerenza ci sia nella sua musica, dal primo album Fetus alla sua ultima produzione. Tra le caratteristiche precise che ricorrono ci sono il suo tipico suono di sintesi e quello orchestrale, oltre naturalmente a quel modo unico di cantare e il quasi assoluto rifiuto dello swing».
Fanno forse eccezione due soli brani, riguardo alla presunta distanza stilistica di Battiato da jazz e dintorni. Il brano Cariocinesi, presente proprio in Fetus, dove c’è ampio spazio per il jazz manouche di Sergio Almangano al violino, e Scherzo in minore molti anni dopo, in Ferro battuto, dove riprende Minor Swing di Django Reinhardt e Stephane Grappelli.
«In Fetus c’è tanta originalità e tantissimo presagio del futuro – dice Finardi –. È l’inizio della sua parabola e già lì sapeva di essere Battiato. Un disco così nuovo, diverso e dirompente presuppone per forza la consapevolezza di una speciale personalità. Ci si poteva già sovraimporre il Battiato che sarebbe venuto poi con il pop e tutto il resto. Quando nel ’78, dopo L’Egitto prima delle sabbie disse “adesso basta, voglio iniziare a vendere dischi”, fu per una scommessa fatta con il suo produttore Angelo Carrara. Lo so bene, perché c’ero di mezzo anch’io. Carrara disse: “Chissà quando arriverà il giorno in cui riusciremo a far vendere dischi a Battiato e Finardi?”. Al che Battiato replicò: “Come? Io non farei successo? È perché non voglio”. Così cambiò rotta e sfornò uno in fila all’altro dal ’79 all’81 L’era del cinghiale bianco, Patriots e La voce del padrone. Regalando alla musica italiana il suono degli anni Ottanta».
Carlo Boccadoro: «Ora rilancio in digitale il Battiato compositore che piaceva a Stockhausen»
Dal primigenio Fetus all’ultimo atto del periodo cosiddetto sperimentale di Battiato, L’Egitto prima delle sabbie. Un lavoro discograficamente sfrontato, quasi una sfida. È il 1978 quando Battiato esce con un long playing la cui facciata A consiste di una ripetizione di una scala di note eseguite dal pianista Antonio Ballista e il lato B (il brano s’intitola Sud Afternoon) in una coppia di accordi ripetuti, con Ballista affiancato da Bruno Canino. Il disco vince il Premio Stockhausen, per la ricerca compiuta sugli armonici. Nessuna risonanza invece in quanto a vendite. L’azzardo è notevole: pop, classica, musica contemporanea? Fatto sta che l’anno dopo il suo nuovo album inchioda con il leitmotiv del violino di Giusto Pio e inizia la nuova era di Battiato sul suo cinghiale bianco.
Fetus e L’Egitto prima delle sabbie, l’alfa e l’omega del Battiato cercatore di sé e di quel “suono” per cui ha fatto musica e per cui desiderava di essere ricordato. A ricordarsi di quel lontano disco il cui titolo era ispirato a un racconto dell’amato Gurdjieff, è ora il pianista, compositore e direttore d’orchestra Carlo Boccadoro, con i suoi Sentieri Selvaggi grande animatore della musica trasversale degli ultimi anni. «Il 9 giugno di tredici anni fa – racconta – il pianista Andrea Rebaudengo ed io eravamo su un palco davanti a duecento persone a eseguire due rare partiture di Battiato, con lui presente, incuriosito e affascinato. Una interpretazione un po’ diversa dall’originale, perché mi interessava far capire la dimensione compositiva di Battiato».
Quel concerto torna ora in versione digitale, in una affascinante registrazione arricchita da una preziosa e inedita conversazione con lo stesso Battiato. A pubblicare il live è la Universal, che il 4 febbraio farà uscire anche un’antologia di Battiato intitolata Correnti gravitazionali: trenta brani da L’era del cinghiale bianco (1979) all’ultimo Torneremo ancora (2019).
«Quando abbiamo eseguito quel concerto – ricorda Boccadoro –, Battiato non ascoltava Sud Afternoon da quando l’aveva inciso nel ’78. Mi dette una partitura scritta in turcomanno, con segni quasi incomprensibili che all’epoca erano chiari solo a lui, a Canino e a Ballista. Per fortuna ho potuto chiedere allo stesso Battiato cosa significassero tutti quei segni, così abbiamo ricostruito una versione leggibile della partitura. Lui perdeva tutto, non conservava. Come molti musicisti d’avanguardia, pensava che una volta fatto il disco si potesse buttare via tutto. Non pensava che quel pezzo avrebbe potuto invece essere rieseguito. Così per 35 anni nessuno ha più saputo dove erano quelle partiture».
A ritrovare un abbozzo di partitura è stato però Bruno Canino. Poi tramite l’archivio della Siae e della Ricordi sono stati rinvenuti anche altri frammenti. Ma soprattutto a consentire di ricostruire la composizione sono stati i nastri originali, da cui con pazienza certosina Boccadoro ha infine “tirato giù” l’intera partitura. «Questa mia crociata mira solo a portare Franco al giusto ruolo che gli compete – sottolinea Boccadoro –. Lui ha fatto il compositore puro dal ’74 al ’78 (dall’album Clic a Juke Box), mentre prima e anche dopo insieme agli strumenti acustici c’è sempre stata l’elettronica. Così, con L’Egitto prima delle sabbie e Sud Afternoon finisce un ciclo. In verità lui aveva fatto anche un altro disco con un pianoforte preparato, nell’idea di un dominio diretto delle corde, ma aveva capito che sarebbe stato una sorta di pseudo John Cage e non l’ha fatto uscire. Ma nemmeno si sa dove questo disco sia finito. Di Battiato c’è ancora tanto materiale in giro, perché lui viveva tutto al presente. In questo senso era a tutti gli effetti un musicista di avanguardia».
In quegli anni nella musica d’avanguardia europea regnava una sorta di tabù nei confronti dei compositori americani, ma Battiato aveva invece intuito che Philip Glass e pochi altri avevano segnato una strada per il futuro. «Battiato non aveva interesse a imitarli ma aveva capito che il concetto di ripetizione che caratterizzava quegli autori era un’idea interessante – spiega Boccadoro –. Così l’ha importata realizzando già nei primi dischi il suo vero intento cioè lasciare di sé un suono. In Egitto prima delle sabbie e Sud Afternoon non contano le note, i tasti del pianoforte, ma i suoni che vengono rilasciati, gli armonici che cambiano ogni volta. L’accordo iniziale è solo uno starter, conta quello che viene dopo. Franco era attratto dalle risonanze. Per questo aveva voluto studiare violino prima di scrivere per violino, per sentire l’arco sulle corde, la scia delle vibrazioni, l’esperienza tattile del suono. Le risonanze della musica e quelle dell’anima, così come faceva con la voce, facendola risuonare in diverse parti del corpo, quella voce così interiorizzata. Lui era attratto dal suono e non intellettualmente dall’idea di suono. E questo voleva lasciarci, di sé».