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Festivaletteratura. Mary Robinson: «Battaglia per il clima, battaglia per la dignità»

Lucia Capuzzi domenica 6 settembre 2020

Mary Robinson, ex presidente dell’Irlanda e alto commissario Onu per i Diritti umani

Uno sparo di artiglieria in lontananza, un crepitio che si rifrange sul terreno lavico e roccioso. È questo il suono che accompagna l’agonia di un ghiacciaio. Mary Robinson lo ha sentito con esattezza durante una missione in Groenlandia, alla fine del 2019. Gli scienziati lo chiamano “distacco”: indica lo sfaldamento di un blocco di ghiaccio dal corpo principale. Un fenomeno ricorrente al tempo del riscaldamento globale. «In quel momento mi sono sentita in intimo contatto con la natura e, al contempo, ho provato un grande senso di vergogna», racconta l’accademica, prima donna ad essere eletta presidente dell’Irlanda nel 1990. Incarico che ha ricoperto fino al 1997 per poi diventare alto commissario Onu per i Diritti umani. Nei cinque anni di mandato alle Nazioni Unite, Mary Robinson ha avuto modo di viaggiare a lungo per l’Africa. «Là ho capito che la battaglia per la dignità di ogni essere umano deve includere quella per la tutela dell’ambiente. Il cambiamento climatico non è un fenomeno astratto. Ma una tragedia concreta che impedisce a milioni di esseri umani di mangiare, bere, curarsi, studiare, semplicemente di vivere», racconta. La conversione ecologica definitiva dell’ex presidente è avvenuta, però, il 12 dicembre 2003, giorno del suo trentesimo anniversario di matrimonio e della nascita del piccolo Rory. «Quando incrociai lo sguardo del mio nipotino, sentii una scarica di adrenalina, una sensazione fisica nuova e diversa da tutto quello che avevo mai provato fino ad allora. In quel preciso istante la mia percezione del tempo è cambiata: ho cominciato a pensare su un arco temporale più lungo, di almeno cent’anni. Ho capito subito che da quel momento in poi avrei guardato la vita di Rory attraverso il prisma del futuro precario del nostro pianeta. Con quel piccoletto tra le braccia avvertii in un lampo la minaccia che il cambiamento climatico rappresentava per lui, e di conseguenza per tutta l’umanità. Io nel 2050 non ci sarei più stata, ma che cosa potevo fare per assicurarmi che Rory, e ogni bambino nato nel 2003, ereditasse un mondo in condizione di ospitarli, e non uno sull’orlo della catastrofe?», scrive Mary Robinson in Climate justice. Manifesto per un futuro sostenibile, recentemente pubblicato da Donzelli (pagine 224, euro 15,00), che l’autrice presenterà l’11 settembre alle 18.30 nell’ambito del Festival di Mantova.

Che risposta si è data? Che cosa poteva e può fare per consegnare a suo nipote un pianeta ancora abitabile?

Impegnarmi in prima persona nella battaglia per la giustizia climatica.

Questo è anche il titolo del suo libro. Che cos’è la giustizia climatica?

Il cambiamento climatico produce vari livelli di ingiustizia che richiedono di essere sanati, con una presa di posizione netta. Il riscaldamento globale si accanisce con particolare violenza sui Paesi più poveri meno responsabili delle emissioni inquinanti. Sono state le nazioni industrializzate a costruire le proprie economie sulle energie fossili. Eppure pagano un prezzo minore. Il Sud del mondo, oltretutto, vorrebbe puntare sulle energie verdi ma avrebbe necessità di investimenti, formazione e sostegno per farlo. All’interno delle singole comunità, inoltre, le donne sono le più colpite a causa del ruolo subordinato in cui sono relegate in molte società che non concedono loro pari opportunità, potere e diritti. Vi è poi l’ingiustizia nei confronti dei giovani, a cui rubiamo il futuro come loro stessi ci ricordano nei “Fridays for future”. E quella verso la natura stessa, ferita, mutilata, devastata, come dimostra la perdita di biodiversità e l’estinzione di intere specie.

In un momento di recessione globale provocata dal Covid, ci potrebbe essere la tentazione di considerare la lotta al cambiamento climatico quasi un lusso.

Credo, al contrario, che la pandemia o, meglio, la risposta a quest’ultima possa essere una fonte di ispirazione. Con il Covid, abbiamo toccato con mano la forza dell’azione collettiva. La quarantena e il distanziamento fisico sono efficaci se diventano un comportamento diffuso. Possiamo, anzi dobbiamo, applicare questa consapevolezza alla cura ambientale. Nel grande come nel piccolo. Ciascuno può contribuire a produrre meno rifiuti, utilizzare l’energia in modo più efficiente, consumare con maggiore consapevolezza. È soprattutto cruciale cambiare lo sguardo nei confronti della natura: non è un oggetto ma un qualcosa di vivo, con cui entrare in armonia.

Crede che la Laudato si’, a cui quest’anno è dedicato, stia contribuendo a questo cambiamento?

L’enciclica di papa Francesco, pubblicata cinque anni fa, poco prima della Cop 21 di Parigi, ha avuto un ruolo determinante nel sensibilizzare i governi affinché si assumessero la responsabilità del cambiamento climatico. L’Accordo firmato quell’anno, pur con tutti i limiti, resta una pietra miliare. La Laudato si’ ha dimostrato quanto sia necessaria una leadership morale per promuovere una consapevolezza ambientale diffusa. Per questo, quando ho avuto l’occasione di incontrare papa Francesco, nel giugno 2019, durante l’incontro in Vaticano sulla transizione energetica, gli ho donato il libro che racconta la recezione del documento da parte dell’Irlanda. Avevo già avuto modo di conoscerlo nel novembre 2017 ed era stata una forte emozione.

Dopo due decenni di battaglia per la giustizia climatica, è ottimista sul futuro del pianeta?

È facile scoraggiarsi di questi tempi, ma non voglio perdere la speranza. A darmela sono le persone straordinarie che patiscono il riscaldamento globale ma non si arrendono e si ingegnano per aiutare le proprie comunità ad adattarvisi. I loro racconti di resilienza sapranno illuminare il cammino che ci attende.