La storia. Batistuta, la prova del “9” in un docufilm
Un’immagine di Gabriel Batistuta, classe 1969, quando segnava con la maglia della Fiorentina anni ’90
Ogni volta che Gabriel Batistuta torna nella “sua” Firenze resta sorpreso dall’affetto con cui viene ancora accolto dalla gente. «Ne è valsa la pena rompersi le caviglie per un amore così» confessa, alludendo ai gravi problemi di salute che l’hanno afflitto nel recente passato. Stavolta è venuto per girare un documentario sulla sua vita, El número nueve, con la regia di Pablo Benedetti. Le riprese proseguiranno fino ai primi mesi del 2019, il film è atteso nelle sale e sulle piattaforme digitali nella primavera prossima. Un lungo viaggio con tappe in Argentina, in Italia e in Qatar per raccontare l’altra faccia di uno dei più grandi attaccanti degli ultimi trent’anni. Il racconto intimo di un uomo che non è nato campione ma lo è diventato con i sacrifici e la forza di volontà. Batistuta non è mai stato un predestinato. La sua storia non è quella di un bambino sudamericano costretto dalla povertà a giocare per strada con un pallone fatto di stracci. Ha cominciato tardi, a sedici anni, e solo gradualmente si è reso conto di poter fare il calciatore, fino a diventare uno dei più grandi. Arrivò in Italia a 21 anni, nel 1991, accompagnato dalla giovane moglie Irina, al sesto mese di gravidanza, e dallo scetticismo di molti. All’epoca quasi nessuno credeva in lui. Invece “Batigol” è diventato uno dei più forti attaccanti del calcio moderno pur restando un uomo all’antica, marito e padre di quattro figli (tutti nati a Firenze), che crede da sempre in certi valori. La semplicità, prima di tutto, che il docufilm cerca di far emergere dietro alla maschera del campione.
Perché ha accettato di girare un documentario sulla sua vita?
«Non ho mai amato mettermi in mostra ma mi sono convinto che con questo progetto potevo dimostrare ai più giovani che i propri sogni si possono realizzare. Raccontare i sa- crifici che ho fatto da piccolo è un modo per avvicinarli a una realtà che loro vedono lontanissima, quasi irraggiungibile. Con questo film vorrei invece far capire ai bambini, soprattutto a quelli argentini, che niente è impossibile».
La sua infanzia coincise con un periodo molto difficile per l’Argentina. Quelli del 1978 sono tuttora ricordati come “i mondiali della vergogna” perché si giocarono mentre si compieva la tragedia dei desaparecidos. Fu in grado di percepire qualcosa di quanto stava accadendo?
«No, ero troppo piccolo e all’epoca nessuno ne parlava. Non se ne sapeva quasi niente. Solo negli ultimi venticinque anni si è cominciato davvero a conoscere quei fatti. Se mi metto nei panni dei giocatori della nazionale argentina di allora, penso che deve essere stato molto difficile scendere in campo in quel periodo».
Proprio oggi si gioca Fiorentina-Roma, la “sua” partita. Per chi farà il tifo?
«Queste due squadre sono sempre state nel mio destino. Nel 1989, quando arrivai per la prima volta in Italia per partecipare al Torneo di Viareggio mi portarono a vedere una gara di serie A in uno stadio italiano. Era l’Artemio Franchi di Firenze e si giocava proprio Fiorentina-Roma. Finì con un pareggio per due a due e per i viola segnò una doppietta Stefano Borgonovo, al quale due anni dopo avrei preso il posto... Oggi sono contento se vince la Fiorentina, di cui sono tifoso, ma non voglio il male della Roma. Nei due anni in giallorosso sono stato molto bene. I romani sanno quanto amo Firenze ma ho un ottimo rapporto con entrambe le città.
La sfida tra Fiorentina e Roma sarà anche un duello a distanza tra due numeri “9”, Džeko e Simeone.
«Il bosniaco è un grande attaccante, un giocatore affermato e maturo che è il simbolo di questa Roma. A Giovanni (Simeone) voglio molto bene, sta lavorando con grande impegno ma penso che al momento non si possa parlare di un duello tra loro due. Simeone deve ancora costruire la sua carriera».
Qual è il suo erede nell’Argentina di oggi?
«Ci sono Mauro Icardi e Gonzalo Higuaín. Il primo mi piace perché durante la partita non si vede molto ma alla fine segna sempre. Gonzalo ha fatto bene ovunque. Credo che il futuro appartenga a Icardi, ma soltanto perché è molto più giovane».
Recentemente ha concluso il corso per allenatori a Coverciano, la vedremo presto in panchina?
«Non credo. Ho fatto il corso perché volevo capire come pensano gli allenatori. Ho imparato tanto ma credo che non sia ancora il momento di iniziare quella carriera. Nel frattempo ho ricevuto alcune offerte, dall’Argentina e dalla Francia, ma sento che quella non è ancora la mia strada. Per adesso non mi sento ancora pronto».
Avendo lasciato il cuore a Firenze ed essendo tuttora un simbolo per i tifosi fiorentini sarebbe stato naturale vederla entrare nella società viola come dirigente...
«Confesso che mi sarebbe piaciuto lavorare per la Fiorentina, ad esempio ricoprendo lo stesso ruolo che oggi Totti ha nella Roma. Ci ho sperato a lungo ma non è stato possibile. Adesso è tardi, ho la mia vita a Reconquista e mi sono messo l’animo in pace. Era un mio desiderio ma capisco che possa non essere rientrato nei piani di chi oggi dirige la Fiorentina e ovviamente non ho nulla contro di loro».