Agorà

STORIE. Barilla, il «don» dietro la pasta

Roberto Beretta mercoledì 21 luglio 2010
Forse la vicenda non sfigurerebbe in quello spot in cui un baffuto antenato Barilla, nel bel mezzo di un doratissimo campo di grano, s’immagina il futuro della sua azienda. È la storia vera ma nascosta dell’industriale Pietro Barilla junior, che ora si scopre grazie a una lettera inedita di padre Paolino Beltrame Quattrocchi pubblicata nella biografia di quest’ultimo: L’Avventuriero di Dio di Rosangela Rastelli Zavattaro (Edizioni Pro Sanctitate, pagine 170, euro 12).Tra le mille evangeliche imprese del benedettino e poi trappista padre Paolino – figlio di quei coniugi Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi che sono stati beatificati nel 2001, grande predicatore, fondatore di scout, imprenditore della carità, postulatore di santi... – c’è infatti anche l’attività svolta durante l’ultima guerra a Parma, prima come riferimento «segreto» di parecchie trame resistenziali (nel febbraio 1945 venne incaricato dal generale Raffaele Cadorna, capo del Cln del Nord Italia, di attraversare le linee per portare messaggi importanti al capo del governo dell’Italia «dimezzata») e poi quale cappellano delle cerceri dove passarono tutti gli «epurati».Fu appunto esercitando questi uffici che il vulcanico padre Paolino, morto quasi centenario il penultimo giorno del 2008, approfondì la conoscenza con la famiglia Barilla: gli industriali che già all’epoca erano tra i primi italiani nel settore alimentare. Il religioso rievoca la vicenda in una lettera inviata nel settembre 1998 ai figli di Pietro Barilla come testimonianza sulla figura del padre, morto nel 1993.Padre Beltrame Quattrocchi vi ricorda anzitutto di aver visto «spesso» il futuro imprenditore insieme alla madre Virginia «alla domenica in San Giovanni sotto il mio pulpito alla Messa del mezzogiorno». Ma fu «tra l’agosto e il settembre 1944» che tra i due «la conoscenza cominciò a convertirsi in amicizia»: Riccardo Barilla, padre di Pietro e titolare dell’azienda, era stato preso in ostaggio dai partigiani e il figlio trentenne si recò da padre Paolino (noto per le sue frequentazioni resistenziali) a perorare il riscatto: «Attraverso un carissimo amico – testimonia il monaco – potei effettuare la mediazione».La seconda occasione qualche mese più tardi, dopo il 25 aprile 1945, quando tocca allo stesso Pietro finire ristretto nel carcere di San Francesco a Parma «nelle tragiche giornate delle rappresaglie e della epurazione»; e al sacerdote, divenuto cappellano carcerario, avvenne così un mattino di imbattersi nei corridoi «con un gruppetto di detenuti "eccellenti", arrestati in attesa di accertamenti su di un presunto collaborazionismo. Mi feci garante per loro, che ottennero la liberazione di lì a qualche giorno».La doppia intercessione meritò al religioso «un rapporto di amicizia vera... di fraterna stima e solidarietà. Io – Paolino senza il "don" – divenni per anni uno dei suoi confidenti riservati, su di un vasto raggio prevalentemente etico e religioso, sociale e familiare... Ogni volta che c’incontravamo con Pietro – senza il "signor" – v’era sempre qualcosa su cui ragionare e discutere, sia pure da angolazioni diverse, con grande rispetto reciproco, con dialogo sereno e motivato, da lui sempre seguito con interesse e... quasi sempre accolto e tradotto in atto».Non solo padre Paolino benedisse le nozze di Pietro Barilla e ne battezzò i figli, ma divenne il suo tramite per molte opere di carità: «La mia vorticosa attività assistenziale post-bellica – scrive il reverendo – fu proprio il terreno sul quale, con la più discreta e pudica riservatezza Pietro fu al mio fianco dietro le quinte, per anni ed anni, sostenendo con inusitata munificenza pressoché tutte le mie iniziative, dall’accoglienza ai reduci dalla Germania a quella dei profughi giuliani e del Polesine, dalle primissime colonie estive agli alluvionati, ai poliomielitici, agli ex detenuti».Carità discreta ma consapevole, non paternalistica. Come ricorda ancora Beltrame Quattrocchi concludendo la lettera: «Un giorno che tornava dall’orfanotrofio (che gli era caro come una pupilla) m’intratteneva commosso sulle ultime emozioni che lo avevano afferrato al contatto con quei bambini. A un certo punto s’interruppe e, senza darmi spiegazioni, mise mano come di consueto al blocchetto degli assegni e me ne consegnò uno, dopo averlo debitamente riempito per una cifra, come sempre, a sei zeri. Al mio commosso ringraziamento replicò: "No, Paolino, in fondo sono io che devo ringraziare te, perché mi offri la possibilità di andare a colpo sicuro... e di aggiungere questa rara soddisfazione che non ha prezzo: quella di dare, di dare per dare, dove so che c’è bisogno... Non ho mai capito perché tanti miei colleghi non lo comprendano, privandosi così di una gioia immensa, pulita e gratificante come questa"». Bello; e non è nemmeno una fiction da Mulino Bianco...