Dopo Ramallah, dove nel 2005, tra mille difficoltà, ha suonato Mozart e Beethoven all’ombra del muro con i ragazzi della West Eastern Divan orchestra, il desiderio – che lui definisce «una necessità» – di Daniel Barenboim è di «suonare a Gaza» tra le ferite dell’ennesimo sanguinoso conflitto mediorientale. «Fosse per me – racconta il direttore d’orchestra che nel 1999 ha fondato con il compianto intellettuale palestinese Edward Said la formazione che vede suonare fianco a fianco musicisti israeliani e palestinesi – partirei subito con i ragazzi per andare a fare musica nella Striscia di Gaza». Invece Barenboim – argentino di nascita, ma israeliano di origine – per ora si deve accontentare di fare musica lontano dal Medioriente, a Berlino, Mosca, Vienna, Milano dove è in tournée per ricordare i dieci anni della Divan. «A causa della guerra abbiamo dovuto annullare i concerti a Doha in Qatar e al Cairo: con l’Egitto stiamo già trattando per una nuova data e, sono sicuro, presto riusciremo ad andare anche a Gaza a portare il nostro messaggio».
Scusi, maestro Barenboim, perché la musica dovrebbe riuscire dove la diplomazia spesso ha fallito? «Non pretendiamo certo di risolvere questo conflitto con la nostra musica, ma siamo convinti che il nostro progetto, che non è politico, ma umano, possa essere un modello per il dialogo: suonando fianco a fianco israeliani e palestinesi imparano a conoscere l’altro, a capire la logica delle sue argomentazioni. Così la nostra diventa una sfida all’ignoranza – intesa, appunto, come non conoscenza – che è profondamente radicata in entrambe le parti».
Allora la Divan orchestra è un’isola felice. «Per nulla perché non abbiamo voluto abolire le differenze, ma incentivare il confronto: i ragazzi discutono animatamente, difendono le loro posizioni. È sempre accaduto durante le nostre tournée. È avvenuto con maggior forza in queste settimane: al di là delle differenze, al di là delle convinzioni personali tutti ci siamo trovati d’accordo sul non capire la logica di questa guerra. E di fronte a questo abbiamo avvertito ancora più forte il bisogno di fare musica insieme».
Dedicarsi all’arte mentre la gente muore non è un fuggire da una realtà che, forse, richiederebbe un impegno diverso che salire su un podio per fare musica? «Molti ci hanno accusati di essere troppo ingenui. Io ritengo, invece, che sia ingenuo pensare ancora, dopo così tanti morti, che si possa risolvere questo conflitto con la violenza».
E lei, che ha sia la cittadinanza israeliana che quella palestinese, che idea si è fatto? «Il conflitto non si può risolvere né con un cessate il fuco unilaterale né con una tregua a tempo perché questo crea solo un periodo di vuoto nel quale si prepara lo scontro successivo. Mi chiedo: è davvero possibile mettere fuori combattimento Hamas? E una volta distrutta l’organizzazione terroristica volete che non nasca un nuovo gruppo fondamentalista che rischia di essere ancora più violento del precedente? Sono convinto che oggi ci sia solo una carta da giocare, quella dell’accettazione dell’altro, quella di riconoscere la necessità di vivere insieme. Con i ragazzi dell’orchestra ci abbiamo provato. E pare funzioni.