Musica. Il Banco non salta, ed è sempre «prog»
«Siete destinati a sopportarlo ancora, il Banco del Mutuo Soccorso». Vittorio Nocenzi, compositore e tastierista della principale band italiana di rock progressive, nata a Roma nel ’70 e autrice di dischi quali Darwin! o Come in un’ultima cena, ci salutava così nel 2014: dopo averci raccontato i progetti ancora in cantiere per il gruppo nonostante la scomparsa del cantante Francesco Di Giacomo in un incidente. Poi, nel 2015, Nocenzi è stato colto da emorragia cerebrale, ed è sembrato che la vita avesse messo la parola fine alla gloriosa storia del Banco, ulteriormente segnato dalla morte, poco tempo dopo, anche di Rodolfo Maltese. Per fortuna invece non è stato così, tanto che la band, tornata attivissima nei live con Filippo Marcheggiani e Nicola Di Già alle chitarre, Marco Capozi al basso, Fabio Moresco alla batteria e Tony D’Alessio alla voce, ora pubblica un cofanetto che prende le mosse da Io sono nato libero, suo capolavoro del ’73. All’album dell’epoca rimasterizzato si abbina un disco tutto inedito, La libertà difficile; e i due lavori, coesi per intenti e tematiche, proposti uno dietro l’altro aggiornano ad oggi ideali da salvare e problematiche da affrontare che erano alla base dell’lp originale di oltre quarant’anni orsono, tanto quanto lo sono di una riflessione sul mondo odierno. Così la denuncia dell’orrore di ogni guerra, l’ansia di una libertà vera per l’uomo, il no a qualsivoglia razzismo di ideali, ovvero le faccende che nel ’73 innervavano Io sono nato libero nei suoi capolavori (la calviniana La città sottile, Dopo… niente è più lo stesso, Non mi rompete), divengono oggi condanna del terrorismo in uno scenario di guerre nuove ( Je suis, Après rien, rien est plus le même), canto per un eroismo quotidiano e segnalazione di una necessaria libertà della conoscenza (nella maiuscola e “alla Banco” La libertà difficile, composizione coltissima orchestrata in modo sublime). Per fortuna, come disse tre anni fa Nocenzi, il Banco è ancora qui. E noi possiamo ancora… «sopportarlo».
Nocenzi, ha mai pensato che nel 2015 fosse finita?
«Sinceramente no: anche se ho passato due anni molto dolorosi era doveroso fare i conti con l’affetto e la stima dei tantissimi che mi incitavano a portare in giro ancora il Banco. Gli artisti dipendono dalla gente, per me è un dovere risponderle».
L’ha aiutata trovare in suo figlio un coautore?
«È un indennizzo della vita… Michelangelo scrive molto e ciò che scrive mi entusiasma, mi viene spontaneo lavorarci su… Mi ha riacceso la voglia di comporre, per condividere musica prima con lui e poi con il pubblico. Ora per me è fondamentale scrivere per migliorarmi, è un nuovo baricentro esistenziale».
Ha rimpianti per non aver proposto inediti dal 1993?
«Privilegiammo i live, fu un errore. Ora ribaltiamo: per la prossima primavera faremo un concept, poi completeremo Orlando, nostra opera contemporanea».
Come ha sostituito Maltese e soprattutto Di Giacomo?
«Cercando persone belle, prima che brave. Non volevo fuoriclasse da baraccone, ma gente attenta ai valori interiori: sa, quando si scrive si è fragili, si espone la parte intima di sé… E sarebbe impossibile rendere partecipi dei propri sogni, delle poesie, dei desideri, persone che umanamente non si stimano».
Sente la responsabilità di quello che cantate?
«Molto. È un fatto di onestà intellettuale, se ti danno il privilegio di ascoltarti devi tenere bene in mente che hai un ruolo pubblico… Così lavorando a questo progetto su Io sono nato liberonon potevo pensare “È roba mia”: la gente non è sponda passiva del gioco della musica. Perciò ho agito con rigore, dilatando i contenuti ideali e musicali del ’73 per esprimere un Banco del 2017 in coerenza con quello di ieri, calando su quello che sono oggi riflessioni e domande da cui si era partiti allora».
Quali sono le libertà più necessarie ora, per lei?
«Improvvisare, cioè scegliere senza calcoli. E poi conoscere, in un tempo di ignoranti presuntuosi che s’improvvisano maestri di pensiero… Senza conoscenza siamo schiavi: a vent’anni non avevamo la maturità di dirlo, oggi sì. Ampliando l’impegno di quegli anni».
Ma dov’è il parallelismo fra allora e oggi?
«Nel ’73 partivamo dalla denuncia di quanto accaduto in Cile con Pinochet, uno stato libero che malgrado libere elezioni divenne dittatura. Ma il nostro Je suis Allende di allora, nel tempo ha dovuto essere usato per molto altro: Tienanmen, Iraq, Sarajevo, il terrorismo… Quindi dobbiamo riaffermare il valore della pace, per vedere un futuro: serve una civiltà più rispettosa dell’uomo, serve più spiritualità, non siamo consumatori ma uomini. Credo che i giovani lo coglieranno bene, quello che cantavamo e cantiamo».
Però ha inciso addirittura un’intervista sul cd2 per spiegare i brani: la vostra oggi è musica difficile?
«Li vedo, i guasti del pensiero debole: per i ragazzi è difficile apprezzare il buon vino se bevono solo Coca Cola. Per questo è necessario introdurre una storia delle cose, aiutarli: ma con musica sotto perché solo l’emozione alla fine potrà riscattarci dal materialismo, farci vedere gli arcobaleni del mondo cogliendone anche la poesia».
In questo il prog forse è il linguaggio ideale…
«Sicuramente oggi lo riscoprono: perché molti cercano una musica diversa da quella che si sente in questo sconfortante deserto dei tartari spirituale, capace di ridurla a elettrodomestico sciupandola in un utilizzo dissennato. Il prog è mettere in musica scambi ideali, percorsi di vita e pensiero, per cantare solo quanto ti appartiene davvero: è un viaggio diverso, di cui mi pare oggi abbiano bisogno in tantissimi, gente di ogni età».