Torino. L'Africa negli occhi dei bambini. L'ultimo lavoro di Scimeca al Film Festival
I due protagonisti del film “Balon” di Pasquale Scimeca
È dedicato a tutti i bambini e le bambine che sono morti nel Mediterraneo il nuovo lavoro di Pasquale Scimeca, Balon, prodotto da Arbash con la collaborazione di Rai Cinema e presentato al Festival di Torino. Ma non si tratta di un film sull’emigrazione, bensì sull’Africa, il continente che tanti sono disposti a lasciare a rischio della propria vita. Perché quando la foresta va a fuoco, non puoi che fuggire. Amin e sua sorella Isokè vivono in un villaggio nell’Africa sub-sahariana, senza luce né acqua. Quando una banda di predoni assalta la loro comunità bruciando le case e uccidendo uomini, donne e bambini, i due ragazzini restano soli al mondo e fuggono verso il Nord, decisi a seguire il consiglio del nonno che li spinge a raggiungere la Svezia. Dopo un mese di cammino nel deserto, proseguendo sempre dritto oltre il fiume, vengono soccorsi da una coppia di archeologi che li portano in Libia e danno loro dei soldi con i quali assicurarsi un posto su una delle barche che li traghetterà in Europa. Catturati da una milizia insieme ad altri profughi, dopo mesi di prigionia, violenza e schiavitù, riescono a salire su un barcone diretto verso l’ignoto.
A Torino, oltre al regista, sono arrivati anche i due protagonisti, David Koroma e Yabom Fatmata Kabia, Amin e Isoké, avvolti da pesanti cappotti, con gli occhi sgranati su un mondo che non sapevano neanche immaginare. David ha dieci anni e vive con la madre e cinque fratelli in un villaggio della Sierra Leone. A scuola impara a leggere, a scrivere, a fare i conti, e a parlare inglese, ma è molto faticoso perché deve fare ogni giorno sei chilometri a piedi. Prima ancora deve andare a prendere l’acqua dal pozzo e badare ai fratelli più piccoli. Per questo a volte si addormenta sul banco. Con i soldi guadagnati grazie al film la madre ha comprato un paio di scarpe, un pallone e una bicicletta per lui, abiti nuovi per i fratelli e una lampada a batteria per la sera. Yabom ha quindici anni, vive anche lei in Sierra Leone e va a scuola dalle suore del Guadalupe, anche se la sua famiglia è musulmana. Da grande vuole fare l’infermiera, anzi, il medico, anche se ci vogliono tanti soldi e tanta volontà. Sogna di diventare il primo medico donna del suo Paese, dove tanti bambini muoiono per mancanza di dottori e medicine. Nel suo villaggio non c’è elettricità e quindi neppure il cinema e la televisione. Per questo non ha mai visto un film in vita sua.
A dire il vero prima di Balon non sapeva neanche cosa fosse un film. Scimeca ci racconta tutto quello che i media non possono mostrare perché sappiamo veramente poco di quello che accade in Africa. Per questo il regista ci è andato, per scoprire il pezzo mancante dell’orribile odissea vissuta da migliaia di profughi, molti dei quali bambini. «Da anni frequento a Palermo la Missione Speranza e Carità di fratel Biagio che si occupa dei migranti – ci racconta Scimeca – ma questo non mi bastava più. Volevo indagare l’origine di quella paura che ci prende tutti quando ci confrontiamo con il diverso, con l’altro. Ebbene, l’origine di quel sentimento letale, che ci sta contagiando tutti, è l’ignoranza. Con questo film volevo raccontare le ragioni che spingono tante persone a rischiare la vita per venire in Europa. Ho filmato quello che ho visto».
Il primo giorno di lavorazione del film, il regista e la troupe si trovavano presso di Padri Giuseppini del Murialdo e con Padre Mario sono andati a visitare il villaggio che sarebbe poi diventato la location della prima parte del film. «Avevano organizzato un’assemblea in una radura per ascoltare le nostre richieste, ma prima di cominciare c’è stata una preghiera musulmana, recita tata da tutti i presenti. Poi Padre Mario ha recitato il Padre Nostro, e tutti gli altri lo hanno fatto insieme a lui. Questo momento di grande innocenza e purezza mi ha profondamente toccato, ma mi sono accorto che ogni mattina la vita del villaggio comincia con due preghiere, quella musulmana e quella cattolica. In quel poverissimo villaggio si prega poi per ringraziare del cibo ricevuto e perché Dio lo conceda anche a chi non ce l’ha». E mentre i leader europei si interrogano su come evitare i massicci flussi migratori, per Scimeca la soluzione è una sola: seguire l’esempio dei missionari.
«Dobbiamo fare le stesse cose che i missionari fanno da anni, tutti i giorni. Sono loro i grandi eroi del nostro tempo. Gli africani hanno bisogno soprattutto di scuole e maestri retribuiti, piccoli presidi medici con farmaci poco costosi ma efficaci, come per esempio gli antibiotici, cibi come zucchero e latte per assicurare ai bambini almeno una colazione nutriente. Dopo aver saccheggiato le loro risorse, averli venduti come schiavi, colonizzati imponendo modelli di società estranei, aver tracciato confini geografici inesistenti e averli abbandonati, questo è il minimo che possiamo fare per loro». I proventi del film serviranno per ricostruire nel villaggio del film una scuola, un pozzo, un presidio medico e un campo sportivo. E si sta già pensando di come portare in Italia i due piccoli protagonisti per far loro proseguire gli studi.