Omar vuole fare il meccanico, e tutti s’ingegnano per trovargli un posto in un’officina. Budu ha la fissa del reggae. Alì, invece riesce a coronare il sogno di lavorare in una sartoria grazie all’aiuto dei suoi compagni. Sono tre ragazzi delle periferia della periferia del mondo: in Africa, a Ouagadougou, in Burkina Faso. Sono bakroman, ragazzi di strada, come molti altri cresciuti orfani di un futuro.O forse no, almeno nel caso di Alì e di Omar, e degli oltre 600 che hanno deciso di dare vita a un’associazione, un "sindacato" con cui autogestiscono la propria vita. È la storia, vera, di un riscatto, raccontata dal film
Bakroman di Gianluca e Massimiliano De Serio, vincitore del premio come miglior documentario all’ultimo Torino Film Festival. In sala lo si vedrà a marzo, ma ieri sera a Roma, al cinema Farnese, c’è stato il primo assaggio con il grande pubblico. «È un viaggio all’interno di una comunità unica in tutto il mondo. Fatta di ragazzi che non hanno famiglia, casa, lavoro, ma che decidono di aggregarsi per difendersi dagli abusi e dalle violenze», spiega Gianluca ad
Avvenire. È una specie di società di mutuo soccorso: i bakroman si organizzano, ma senza il benché minimo aiuto internazionale di Ong o di paesi occidentali. «Questo è un punto fondamentale. Perché la comunità nasce anche come reazione allo sfruttamento di un certo tipo di immagine dell’africano emarginato e desolato». Giovani, giovanissimi, in alcuni casi alle soglie della vita, i ragazzi vanno dai 6 anni ai 22. Il più vecchio, si fa per dire, ne ha 24, e infatti fa il presidente. Anche perché è lui il vero collante di questo incredibile progetto: «da ex bakroman, uscito dalla vita di strada grazie a un’organizzazione internazionale, ha deciso di aiutare chi come lui non è stato aiutato. Ma dall’interno, coinvolgendo i piccoli burkinabé».I registi, Gianluca e Massimiliano De Serio, fratelli gemelli torinesi di 32 anni, pluripremiati in Europa e in Italia, si sono imbattuti quasi per caso in questa favola alla Dickens, che ricorda
Il signore delle Mosche senza però la visione cupa dell’infanzia di William Golding. I primi contatti con i bakroman non sono stati facili, però: all’inizio questa «cooperativa della polvere» non li vuole di mezzo, perché pensano siano come tutti gli altri bianchi, buoni solo a fotografare: «Poi hanno capito che potevamo essere uno strumento per ottenere riconoscibilità». L’organizzazione è capillare, gerarchica: 11 siti per tutta la periferia di Ouagadougou, ognuno ha uno capo, che fa da raccordo tra le singole richieste e la sede centrale. «Raccontiamo i loro sogni al di là dei soliti stereotipi. Anche la fatica dell’amore. Ma soprattutto cerchiamo di testimoniarne lo sforzo e la lotta fatta di riunioni e incontri in cui si cerca di risolvere i problemi di ogni giorno». Ogni capitolo del film è un luogo e un personaggio diverso: «Al centro c’è la loro dignità e la loro bellezza, che si esprime attraverso la parola, con cui inizia il percorso di emancipazione dalla strada. Per avere una vita normale. Per diventare, come dice uno dei ragazzi, delle persone».