Agorà

REPORTAGE. Baghdad, cercasi cultura disperatamente

Laura Silvia Battaglia lunedì 4 marzo 2013
​«Per le strade di Baghdad, qualcosa si muove accanto a te. È la morte, una buona compagna ovunque tu vada. Ma devi comportarti come se non l’avessi mai conosciuta». Raudha al-Dhahir ha 60 anni e fuma il narghilè nell’Al-Shahbandar Coffee House, il caffè più famoso di Mutanabbi Street, la via dei poeti e dei libri di quella che fu la gloriosa Baghdad, la città dei giardini della Mesopotamia. Viene qui ogni giorno da un paio d’anni perché non ci sta ad accettare la condizione in cui la città è piombata dopo dieci anni di guerra, l’occupazione americana, le violenze settarie. «La vita va avanti, deve andare avanti e, per quello che possiamo, dobbiamo ricostruire questa città, dobbiamo riprendercela, anche se non è più quella di una volta».
 
Il caffè, un trionfo di bricchi per la bollitura alla turca e le foto della vecchia Baghdad alle pareti, è pieno di poeti, registi, professori e comuni cittadini che vengono qui per discutere dei fatti del giorno, confrontarsi sulla politica e sulla letteratura. Fuori, il mercato dei libri usati è ancora affollato e si può trovare di tutto: dalle opere di Shakespeare ai romanzi di Tom Clancy in inglese, alle cartine del vecchio Iraq.
 
Poco più giù, vicino alla piazzetta sulle rive del Tigri dove si staglia la statua di Abu Al-Tagib Al-Mutanabbi (il poeta dell’era abbaside che fece la spola tra la Siria, l’Egitto e l’Iraq) il "Baghdad Cultural Center" ospita una mostra qui mai vista prima sulla storia di Faysal II Ibn Ghazi, terzo e ultimo re dell’Iraq moderno (1935-1958). «La mostra – dice l’organizzatrice Tamara Daghistani, un’illuminata signora irachena esule in Giordania – ha l’obiettivo di farci ricordare l’Iraq com’era ai tempi del re Faisal e dell’influenza inglese: abbiamo riportato qui anche le sue limousine e gli oggetti personali».
 
Un tuffo nel passato regale di quella che era una delle più belle città del mondo, con l’università più frequentata e qualificata del Mashrek, può servire anche per ricostruire il presente, pur con mille difficoltà. In città, per opera soprattutto di giovani iracheni intellettuali, sorgono i fogli culturali. Si tratta di iniziative personali più che statali: come Baghdad Out, una rivista che si può sfogliare on line su Issuu (http://issuu.com/atelierveldwerk/docs/baghdadout). Non è facile, in un tessuto sociale inquinato dagli strascichi delle violenze, dalla presenza dei contractors, dai check point, dal pericolo bomba sempre costante: solo dall’inizio del 2013, in Iraq, sono morti 316 civili.
 
Ma una renaissance c’è. E, paradossalmente, nella città che ha perduto tutto il suo archivio cinematografico, passa attraverso il cinema e il Baghdad International Film Festival (Biff), la cui quarta edizione è stata organizzata nell’ottobre 2012. Il festival è stato fondato nel 2004 da Taher Alwan e Ammar Alarady, professori di cinema nell’Accademia di Baghdad, durante un periodo in cui la violenza settaria aveva raggiunto livelli molto alti. «Nel giorno di apertura del festival nel 2005, nell’Hotel Almansour, a Baghdad sono scoppiate 20 autobombe», ricorda Alwan, direttore della manifestazione.
 
«C’erano i carri armati per le strade, ma il pubblico non ha mai smesso di affluire». Prima del 1991, l’Iraq aveva 275 sale cinematografiche, ma l’embargo internazionale dopo la guerra del Golfo ha vietato l’importazione delle attrezzature per i cinema e delle pellicole. Da quel momento in poi non è stato prodotto nemmeno un nuovo film iracheno e non c’è una sala di proiezione aperta. Per gli studenti dell’Accademia di Belle Arti che hanno continuato a studiare cinema, è arrivato in soccorso il digitale. Nuruz Faddun, 23 anni, neodiplomata di Baghdad, racconta: «Per troppo tempo abbiamo vissuto in spazi urbani fatti di muri e checkpoint dove una telecamera era una minaccia. Oggi alcuni di noi hanno iniziato a girare in digitale ma siamo sempre costretti a fare riprese di interni o a girare in spazi privati. In parte è una questione di sicurezza, in parte di cultura. Vedere poi una donna con la telecamera in mano è una rarità, anche tra gli operatori televisivi».
 
Nulla a che vedere con l’epoca in cui girava Salwa Abbas, la regista 76 enne, un mito in Iraq. Salwa lavorava in tandem con il marito negli anni Settanta: «Eravamo piuttosto spericolati: salivamo sui treni e li riprendevamo sui binari, mentre la locomotiva ci correva contro». Ma il vero pericolo, per Salwa, era la politica: «Non ho mai fatto parte del partito Baath, ma mi è stato chiesto, pena la perdita del posto di lavoro. Ho resistito finchè potevo; dopo ho preferito mettere da parte la macchina da presa». Tariq Aljoboury ha scritto molto sul cinema in Iraq: «Con l’avvento al potere del partito Baath nel 1968, il governo aveva costruito molti cinema, ma come in ogni dittatura, ha usato questa realtà per fini propagandistici. Il cinema iracheno oggi ha bisogno di finanziamenti e di infrastrutture».
 
Non solo. Ha bisogno di dare credito ai giovani film-maker, che grazie al digitale riescono a fare dei film home made, alcuni di reale denuncia. «A prescindere dai finanziamenti, però, ciò che è più importante è avere una buona sceneggiatura, non un budget illimitato», sostiene Yad Deen, un giovane film-maker curdo cresciuto a Londra, che oggi è diventato ambasciatore del Kurdistan in Inghilterra e che, dopo un documentario sui bambini di Suleymania, si accinge a girare il suo primo lungometraggio, uno psico-thriller intitolato The Brunt.
 
Per Dirk Van dan Berg, regista e produttore basato in Germania e membro di giuria del Biff, «a Baghdad non mancano solo il denaro o le attività culturali, ma la formazione professionale». I giovani iracheni, infatti, «semplicemente non sanno come trasformare le loro idee in una sceneggiatura che poi diventerà un film: questa è la scommessa davvero difficile».
 
Allo Sheraton Ishtar (dove tra un black out di corrente e l’altro sono stati proiettati film da sessanta Paesi) il ventenne Kweish Wartch si aggira freneticamente alla ricerca di un produttore. Arriva qui dal quartiere più turbolento, Sadr-City. «Il mio film – dice, agitando lo script – si chiama Chi sono ed è la storia di un ragazzo che non ha memoria della sua infanzia perché non ha una foto, un ricordo, un solo racconto dei nonni o dei genitori, tutti morti, che gli dicano che faccia avesse da piccolo». Dalla convinzione che trasuda dalle sue parole non è difficile capire che sta parlando di se stesso e che questo film, fosse solo per lui, s’ha certamente da fare.
(Ha collaborato Angela Boskovitch)