«Alla crisi d’autorità che investe tutto, anche lo Stato, anche la Chiesa, Bacchelli è l’unica eccezione». Lo racconta così, con affetto misto a ironia, Indro Montanelli in una nota all’edizione Mondadori di
Il mulino del Po.Aveva conosciuto «il bolognese» durante la Seconda guerra mondiale, al ristorante Bagutta a Milano, per molti anni meta privilegiata di scrittori famosi, a un tavolo che aveva sempre il posto centrale riservato a lui, e che restava vuoto in sua assenza. Nel 2001, per il centenario della nascita, Montanelli poco prima di morire torna a scrivere di lui dalle pagine del
Corriere della sera. Lo definisce uno dei più grandi autori della letteratura italiana, raccontando come aveva subìto il peso della sua amicizia con Benedetto Croce ai tempi del regime fascista e, più tardi, nella vecchiaia, quello che secondo lui era come un insulto: la celebre «legge Bacchelli», che tuttora assegna un sussidio a chi si è distinto nella letteratura, nell’arte, nella scienza, nello sport, ma è in condizioni economiche difficili.Un sostegno (di cui non poté godere, perché morì l’8 ottobre 1985, esattamente due mesi dopo la sua approvazione) concesso «come lo si concede a un mendicante», non un riconoscimento alla sua grandezza di continuatore della tradizione del romanzo in Italia, iniziata da Manzoni e continuata con Nievo e Rovani. E oggi, in effetti, la memoria di Bacchelli tende a svanire: le antologie letterarie scolastiche, che lo citano ma non gli concedono l’onore dei testi, ne sono un segno rivelatore.Eppure, nell’Italia del primo Novecento è grazie a lui che il romanzo torna ad avere fortuna, dopo un periodo di crisi. Il suo grande respiro lo rivela erede della stagione narrativa più felice, dell’Ottocento non solo italiano. Diversamente dal nostro Manzoni, con cui condivise la forte tensione spirituale, Bacchelli fu romanziere prolifico sulla scia di Balzac, di Flaubert: affrontò con uguale maestria generi differenti, tra cui quello storico che lo rese celebre, con i capolavori:
Il diavolo al Pontelungo del 1927, con cui ottenne un tale successo di pubblico da ricondurre il genere sulla cresta dell’onda, e il fluviale, in tutti i sensi,
Il mulino del Po, in tre ampi volumi autonomi pubblicati fra il 1938 e il 1940:
Dio ti salvi, La miseria viene in barca e
Mondo vecchio sempre nuovo.Bacchelli era stato nel 1919 tra i fondatori della rivista «La Ronda», pietra miliare del Novecento, i cui principali esponenti Vincenzo Cardarelli ed Emilio Cecchi consideravano il romanzo un genere «commerciale» e quindi di scarso pregio. Diversamente da loro, l’autore del
Mulino apprezzava la ricchezza e la duttilità della forma romanzesca, come testimonia anche il suo interesse per Manzoni, difensore del romanzo come veicolo di cultura e verità, a cui dedica parecchi commenti, articoli e saggi brevi, raccolti poi nel volume
Manzoni. Commenti letterari uscito nel 1960.Un’attenzione che non si rivolge soltanto a
I Promessi Sposi e comprende anche la sua poesia cristiana, per affinità di interessi e sentimenti. Ma il confronto diretto con il proprio cristianesimo avviene per Bacchelli soprattutto attraverso alcuni romanzi storici di contenuto biblico ed evangelico, un versante poco noto della sua opera, che ha permesso al critico Francesco Casnati di accostarlo a grandi narratori come Franz Werfel, Georges Bernanos, Graham Greene, A. J. Cronin (nel volume
Favole degli uomini d’oggi, 1952). Nel 1945 era infatti uscito il romanzo
Il pianto del figlio di Lais, storia d’amore ispirata a personaggi dell’Antico Testamento, seguito nel 1948 da
Lo sguardo di Gesù, che racconta la Passione dal punto di vista di Itamar, indemoniato guarito dal Nazareno.
È in quest’ultimo libro che Casnati riconosce la modernità sorprendente di Bacchelli, che si esprime attraverso la figura tormentata di Itamar, diviso fra dubbi e slanci generosi, il quale, conquistato dal suo sguardo dolcissimo, vorrebbe seguire Gesù, ma ne viene respinto perché porta su di sé il peso di «qualcosa di troppo». Forse proprio l’angoscia esistenziale, il tarlo interiore che domina fra i temi narrativi del secondo Novecento, interpretato dal punto di vista della fede. Su questa linea continua la studiosa Ines Scaramucci nel volume I romanzi del nostro tempo (1956), parlando di una «soluzione cristocentrica» elaborata da Bacchelli contro i dubbi religiosi del suo tempo.Addirittura una sorta di indagine sulla santità appare nel romanzo del 1945, sullo sfondo della storia d’amore tra Faltiel e Micol: se Gionata interpreta in modo vincente il senso dei limiti umani e del rapporto con Dio, David è definito «un santo furbo» capace di ottenere i massimi vantaggi dal suo legame con il divino. In entrambi i romanzi è l’abbandono alla fede il tema più alto, come anche del più recente Il coccio di terracotta (1966), incentrato sul tempo vissuto da Giobbe dopo i suoi travagli: il simbolo vivente della tenacia e della forza, a volte sovrumana, dell’umanità.