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Cinema solidale. Corrado Azzollini, la mia Africa è la grande bellezza

Massimiliano Castellani venerdì 10 novembre 2023

Lo sceneggiatore e produttore cinematografico Corrado Azzollini con i suoi piccoli amici africani

Lo sceneggiatore e produttore cinematografico pugliese in Kenya ha fondato una scuola di cinema, insegna in Marocco e dal 2003 segue progetti solidali: «Il Continente Nero è pieno di storie inedite da raccontare» La sua Africa, Corrado Azzollini la vive di pancia e di cuore. La racconta per immagini, da vent’anni a questa parte diventando quello che si può definire uno sceneggiatore e produttore solidale. Pugliese, di Molfetta, classe 1975, di educazione profondamente cattolica: «Sono cresciuto nella stessa casa di mio zio monsignore, don Michele Carabellese e ho avuto modo di collaborare con don Domenico Amato incaricato del processo di beatificazione di don Tonino Bello, che ho conosciuto bene quando veniva a trovare lo zio Michele». Un sognatore amante dei fumetti Azzollini, tanto che la sua società di produzione e distribuzione cinematografica l’ha chiamata come il suo eroe d’infanzia, Draka. «Sì, come il figlio del conte Drakula», sorride Azzollini che nel 2018 con Draka Cinema, è entrato nella cinquina dei film olandesi proposti all’Oscar con il film Tulipani - Amore, onore e una bicicletta, pellicola di Mike Van Diem. E può fregiarsi della distribuzione di un successo internazionale come il film di animazione Buñuel - Nel labirinto delle tartarughe di Salvador Simò. Nel 2003 scopre il Continente Nero durante un viaggio avventuroso, il primo di una lunga serie in cui passa dalla Tunisia al Niger «il posto più povero del mondo», Benin, Kenya e Marocco. E qui a Casablanca, all’École Nationale Supérieure d'Art et de Design, viene nominato responsabile per lo sviluppo delle relazioni tra l’Università di Stato del Marocco e l’Italia. Azzollini crede nel «cinema come prodotto artigianale» e non a caso è presidente di Conf: Confartigianato cinema e audiovisivo.

Il suo lavoro è basato sullo scambio culturale, con un occhio sempre attento e puntato sull’attualità e sul sociale. E su questo terreno avvenne l’incontro con il compianto regista-reporter Andrea Purgatori.

Ho prodotto il suo film breve They Sell con cui Purgatori tornava alla regia. È stata l’unica volta che si è fatto produrre. Una storia molto intensa che racconta l’amore incondizionato di un padre verso la figlia. Nel cast c’era l’attore israeliano Ashraf Barhom e Alessandro Haber. Andrea era un uomo rigoroso, preparatissimo, con il quale ci si poteva confrontare su qualsiasi argomento. Sul set fu molto disponibile, lo ricordo come una persona serena, gioviale, e come me amava l’Africa.

C’è un luogo dell’anima tra tutti i Paesi africani che ha visitato?

Una nazione a cui sono molto legato è il Kenya. Ma l’Africa tutta è il luogo dell’anima, è il continente che in questo preciso momento storico può raccontare il maggior numero di storie inedite. Il Sud Sahara ad esempio, è un miniera inesauribile di storie misteriose. Non esistono fonti storiche, né una saggistica in grado di raccontare quel territorio. Eppure esiste una tradizione fatta di usi e di racconti orali. Noi occidentali dovremmo ascoltarle e farle nostre, rielaborarle per superare quella ripetitività narrativa e un po’ vetusta che continuiamo noiosamente a riproporre.

Quelle storie è riuscito a scriverle, a produrle e perfino a realizzare i sogni dei suoi protagonisti.

I miei documentari hanno questa funzione, servire a migliorare le condizioni di vita di chi è stato più sfortunato di noi. Nell’ultimo film che ho prodotto, nel 2021, Questa notte parlami dell’Africa, tratto dal libro omonimo (edito da Piemme) di Alessandra Soresina - regia di Carolina Boco e Luca La Vopa - Kache, la protagonista di quella storia vera, l’ho fatta studiare con un coach italiano e adesso lavora negli Stati Uniti. Vive in una casa sua e manda i soldi alle quattro sorelle che mantiene agli studi in Kenya. Se a questi giovani africani gli fornisci dei contenuti culturali, loro possono crescere e spiccare il volo, proprio come i nostri ragazzi, i quali però hanno talmente tante opportunità che spesso non sanno che farsene. In Africa invece le opportunità scarseggiano e bisogna inventarle continuamente.

Ma nonostante tutto la sua Africa non perde mai il sorriso, né tanto meno la speranza.

Nell’altro mio doc Il tocco dello sciamano si respira proprio questa inesauribile fiducia nel futuro. E il futuro sono i tanti giovani e i bambini che vivono lì e che seguo a distanza, da sempre a titolo personale. Come le due sorelline kenyane, Anita e Anita (13 anni 8 anni). Curioso sì, portano lo stesso nome, sono orfane di padre e un mese fa la vicina di capanna mi telefona per dirmi che la loro madre, un alcolista, è scomparsa nel nulla. Sono volato a Nairobi e le ho iscritte a un college. Due settimane fa ho rintracciato anche la mamma e si sono potute riabbracciare. Una festa. Ho toccato con mano la gioia di una donna che adesso che le sue figlie sono al sicuro ha promesso a se stessa che smetterà di bere.

In Kenya ha anche fondato una piccola “cinecittà”.

Più che una città di produzione è una scuola di formazione legata al cinema e al concetto di impresa. I kenyani, ma gli africani in genere, non hanno la consapevolezza del valore di ciò che li circonda, vivono un po’ come noi dopo la guerra. Eppure basta spostarsi in Uganda, in Congo o in Tanzania, per rendersi conto della bellezza straordinaria della natura che crea dei set unici. Luoghi autentici, dove anche i safari sono veri, con animali che vivono allo stato brado. Il problema dell’enorme potenziale di queste terre è farlo comprendere al politico locale che spesso non vede oltre il suo giardino zoologico privato.

Ma lei insiste e ha creato anche un “ponte culturale” con il prossimo documentario.

Si intitolerà L’ulivo e il baobab e il ponte ideale è quello tra Kenya, Senegal e il Mediterraneo, in particolare quello visto dalla mia Puglia. Abbiamo messo a confronto questi due alberi secolari che assieme possono raccontare le storie umane dei due continenti. Il soggetto è piaciuto a Russell Crowe che è il protagonista de L’olivo e il baobab.

L’Africa in questo momento è protagonista sui nostri schermi con Io capitano di Matteo Garrone che, dopo il Leone d’Argento a Venezia, è il film italiano per la corsa all’Oscar. Le è piaciuto?

Garrone è un regista e una voce importante. Io capitano trasmette una visione positiva, che è la stessa che cerco di dare sempre anche io nei miei lavori. Certo poi il film diventa anche accattivante per lo spettatore perché lo sguardo artistico di Garrone dà una visione non realistica rispetto alle vicende assai drammatiche che riguardano il popolo dei migranti. La realtà infatti parla di una politica che finanzia una serie di stati affinché agiscano per non permettere gli sbarchi, che è un po’ come lanciare la patata bollente addosso ad altri, pagando, e senza preoccuparsi di come questi “altri” assolvano al compito. Condanniamo le Ong e le iniziative private che – ricordiamolo – altro non fanno che rispondere a leggi nazionali, internazionali e transnazionali, a partire dalla Carta dei Diritti dell'Uomo (Art.1 – 1948). Una politica seria dovrebbe trovare delle soluzioni più efficaci per aiutare gli africani a casa loro.

Aiutarli a casa loro significherebbe mettere un argine alla migrazione selvaggia?

Ormai l’Europa vede il migrante africano come un invasore, come un potenziale fuorilegge, mentre l’80% di questi disperati che sbarcano sulle nostre coste non hanno problemi con la giustizia e vengono da noi per cercare il necessario per poter vivere, per sfuggire alla fame e alle guerre in corso nei loro Paesi. Ma noi non conosciamo mai a fondo le motivazioni che li spingono a lasciare la propria terra, non sappiamo nulla delle loro storie e delle problematiche che si celano dietro ai destini di uomini, donne e bambini che arrivano dal mare. E questo perché non sappiamo più ascoltare il punto di vista dell’altro, noi giudichiamo e basta.

L’ignoranza genera razzismo...

È acclarato che la famiglia africana non ha gli stessi diritti di una famiglia occidentale. Ho conosciuto una famiglia tunisina in cui la mamma con il bambino con gravi problemi di salute sono riusciti ad arrivare da noi, in Puglia: lei è stata riconosciuta come rifugiata politica, mentre il marito, che ce l’ha fatta a raggiungerla, l’asilo politico non gli è stato ancora concesso. Io non smetterò mai di dar voce a queste persone che noi occidentali, ingenerosamente, trattiamo da ultimi della terra e non ci rendiamo conto di quanto invece l’Africa si stia impegnando per crescere e migliorare. Basta andare in Marocco, a Rabat, il re Muhammad VI ha disseminato la città di palestre a cielo aperto e di piscine sul mare con accesso gratuito per i giovani. C’è una nuova generazione marocchina che studia, fa sport ad alti livelli, va al cinema e soprattutto vive in un ambiente pulito e curato come non si vede in tantissime capitali europee.

Il Marocco è il Paese d’origine di una delle voci più importanti sull’immigrazione e il razzismo, lo scrittore Tahar Ben Jelloun.

Un uomo che vorrei tanto conoscere e con il quale lavorare a un progetto che è diventato il mio sogno. Anni fa ho letto lo stupendo romanzo di Ben Jelloun Creature di sabbia e sono rimasto letteralmente folgorato, al punto da volerne realizzare un film con la regia di Maurizio Sciarra. In attesa di poter realizzare questo sogno, nel frattempo lavoro a una sceneggiatura per un film che purtroppo tratta un tema quanto mai attuale, la guerra. Parlo della “guerra delle sabbie”, il conflitto in cui Marocco e Algeria, nel settembre-ottobre del 1963, si contendevano una striscia di terra... La storia purtroppo si ripete ancora, anche lontano dall’Africa.