Venezia 2020. Premio Bresson a Pupi Avati: «Narro la felicità dell'uomo»
Pupi Avati a Venezia
«Non mi sono mai fermato dal lavorare nemmeno durante la quarantena. Se non faccio tutte queste cose alla mia età, quando le faccio?». Sorride con l’aria birichina di un ragazzino il regista Pupi Avati, 81 anni, che è appena arrivato al Lido da Ferrara lasciando il set del nuovo film Lei mi parla ancora per ricevere oggi il prestigioso Premio Bresson.
Alle 12 presso lo spazio FEdS all’Hotel Excelsior, a margine della 77ª Mostra del Cinema di Venezia, della Fondazione Ente dello Spettacolo e la Rivista del Cinematografo, con il patrocinio del Pontificio Consiglio della Cultura e del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, giunto quest’anno alla sua ventunesima edizione. A premiarlo il presidente di FEdS monsignor Davide Milani alla presenza del presidente della Biennale Roberto Cicutto e del direttore della Mostra del Cinema di Venezia Alberto Barbera.
La motivazione definisce Pupi Avati uno «tra i maestri più prolifici ed eclettici del panorama cinematografico nazionale» capace di rivisitare registri espressivi diversi «con il diaframma di uno sguardo sempre lucido, capace di penetrare i sentimenti nascosti e le pulsioni più inconfessabili degli esseri umani».
Avati, con che emozione riceve il Premi Bresson?
Lo vivo con un senso di riconoscenza enorme e nello stesso tempo con il senso di inadeguatezza nel confronto con un autore cinematografico che nella mia formazione ebbe un ruolo non indifferente. Bresson mi mostrò una delle diverse possibilità attraverso le quali si può raccontare la spiritualità dell’essere umano, ma anche la sua inadeguatezza nei riguardi del mondo. Il senso di religiosità di Bresson è legato alla creatività del cristianesimo, ma allo stesso tempo lui ne vedeva anche le difficoltà, che esistono, che sono fondamentali in chi si ostina a voler credere, come me.
La sua fede nei suoi film appare, ma non in modo dogmatico.
Ho cercato di far trasparire l’essere umano nel suo desiderio di felicità, più che di infelicità, anche indicando come la famiglia, le storie che si ispirano al «per sempre», siano possibili, mentre mi sembra che il cinema di oggi continui ostinatamente a negarlo. La nostra è una cultura davvero provinciale, che non aiuta l’essere umano a vivere meglio: c’è quasi un dileggio del matrimonio, della continuità delle storie d’amore, c’è una sorta di diffidenza continua che trasmettiamo a chi è già qui dopo di noi. Do un suggerimento ai giovani registi: abbiate il coraggio di immaginare la positività della vita.
Lei ora ritorna sul tema con il nuovo film?
In Lei mi parla ancora, racconto una storia d’amore lunga 65 anni, quella di Giuseppe Sgarbi (interpretato da Renato Pozzetto) per la moglie Caterina Cavallini, i genitori di Elisabetta e Vittorio Sgarbi. È il film più anacronistico, più controcorrente, meno politically correct che si possa fare al mondo oggi, ma ne vado orgoglioso.
Anche quella con sua moglie Andrea è una lunga storia d’amore.
Con mia moglie viviamo assieme fra difficoltà enormi da 55 anni. Il periodo più bello della mia vicenda matrimoniale è quest’ultimo, nella riconoscenza di condividere tutto con una persona che mi conosce così bene nei miei limiti, nei difetti e nei piccolissimi pregi. Non si può raccontare il matrimonio senza considerare la lunga durata: è nella lunga durata che si va a raccogliere il frutto di una semina difficile. Invecchiare insieme è un immenso dono reciproco, dimostra la sacralità di una unione. Quel «per sempre » pronunciato sull’altare tanti anni fa, finalmente adesso l’ho capito.
Farà il film su Dante previsto per i 700 anni della sua morte?
Dobbiamo ripartire, ma si farà. È basato sul trattatello di Boccaccio che è il primo biografo del Sommo Poeta. Intanto Boccaccio ce l’abbiamo, è un grande attore come Sergio Ca- stellitto: andrà alla ricerca di Dante che vedremo in tre età diverse, bambino, giovane e adulto. Intanto il 24 settembre esce il mio nuovo romanzo seguito de Il signor diavolo.
Nella sua lunga carriera lei ha fatto anche incontri importanti con diversi Papi.
Ho incontrati Giovanni Paolo II con cui pranzai a Castelgandolfo, nell’occasione della prima intervista televisiva a un Papa. Io dovevo essere il regista e l’intervistatore doveva essere Vittorio Messori per la Rai, ma poi non andò in porto. Comunque ricordo quel pranzo come un’esperienza umana bellissima. Anche con Benedetto XVI abbiamo avuto un incontro fantastico. Gli donai un film in cui avevamo montato un filmato ritrovato in Germania della sua prima messa 60 anni prima, con 60 spezzoncini con gli auguri di tutto il cinema italiano. Il Papa aveva le lacrime agli occhi e mi prese le mani… indimenticabile. Invece papa Francesco l’ho incontrato a Santa Marta in occasione dei miei 50 di matrimonio.
Tirando le somme della sua lunga carriera, come pensa di avere inciso sul cinema italiano?
Il mio tentativo è stato di fare quello che non c’era, quel modo di fare cinema che non era stato ancora considerato. Né nell’ottica del botteghino, né in quella dello star system, ma nel guardare al senso delle cose che facciamo. Ho voluto trasmettere in modo rosselliniano la condivisione delle emozioni. E ho voluto raccontare l’essere umano. E dimostrare come anche uno come Carlo Delle Piane, l’essere umano meno avvenente del mondo, come tanti emarginati, possa legittimamente aspirare alla felicità. Esiste il dovere di sognare, ognuno deve aspettarsi qualcosa di fantastico per sé nel futuro, anche se non avverrà mai.
E un bilancio sulla sua, di vita?
Oggi ho un vantaggio in più, so cosa è la vita. Trent’anni fa pensavo di saperlo e di raccontarla, ora invece lo so davvero. L’unica cosa che non so cos’è è la morte, e spero di saperlo il più tardi possibile. Ma se ci fosse Qualcuno di là ad abbracciarci, sarebbe fantastico.