Madrid. Bernardo Atxaga: la letteratura è figlia dell'interiorità
Capo Matxitxako, sulla costa basca spagnola
«Era il primo giorno di scuola a Obaba. La nuova maestra andava di banco in banco con l’elenco degli alunni in mano. “E tu? Come ti chiami?” » Potrebbe partire da qui, dall’incipit de Il figlio del fisarmonicista - ora riproposto da 21 Lettere e che nel 2008 gli è valso i premi Mondello e Grinzane Cavour - il filo rosso di un colloquio con Bernardo Atxaga. L’autore basco più universalmente riconosciuto ne parlerà al Salone del Libro di Torino. Obabakoak lo proiettò a livello globale. Poi sono seguiti Un uomo in codice, Sotto un altro cielo, L’ottava casa, Casas y tumbas, dove nel 2021 annunciava che avrebbe lasciato il romanzo. E, da quando si è «liberato della camicia di forza della novella», Atxaga confessa di scrivere «con assoluta libertà e tranquillità », dopo il giro di boa dei 71 anni. «Oggi per esempio ho tutto il tempo, devo solo fare la valigia per trasferirmi nella casa al paese, dove con Asun (Garikano, sua moglie e traduttrice dal basco, ndr) resteremo fino all’inverno », divaga sorridendo via Zoom.
Il paesino è quello natale di Asteasu, in Guipuzkoa, geografia della sua infanzia. Atxaga ha appena pubblicato in spagnolo Un grillo en la autopista (edizioni Folck & Folck), «ibrido fra articolo e racconto», compendio in forma di saggio delle sue riflessioni per il programma Faktoria alla radio Euskadi Irradia: «Un modo di esprimere in basco le mie opinioni su molte questioni contemporanee», spiega. Prosa, poesie, artifizi narrativi, complicità letterarie tessute dallo sguardo poetico. «La forma è necessaria – riprende - perché senza, l’arte non è possibile. Ma non può essere una costrizione, nel mio caso il romanzo si concilia male con le muse. Me ne sono liberato e ho esplorato strade diverse, come in Desde el otro lado ( Dall’altro lato, edizioni Alfaguara) che contiene testi più brevi, di 50-60 pagine, scevri da dettagli naturalisti, una voce più interiore, più intima».
Sta ultimando anche un libro di poesie?
«Sì, ma non è una raccolta di liriche. Exteriores del paraíso è un testo con poemi, un artefatto. Il primo capitolo riflette la realtà del carcere di Mauzac nel sudest francese, dove sono stato per un recital di poemi ai detenuti. Racconto il viaggio, l’entrata nella prigione, l’impressione che mi produce. Ma c’è un elemento che interferisce, l’immagine che ritorna della piccola Ainhoa (vittima di un crimine efferato e protagonista delle poesie in Familia, ndr). Poi mi dicono che in quel carcere sono reclusi il 90% dei pedofili di Francia. E penso: come posso leggere un poema come Desolatio, dedicato ad Ainhoa? Parole come “bambina”, “bicicletta”, “fiume” suonano in maniera diversa a Mauzac. Così, fra una curva e l’altra della mente, vado riaccomodando i poemi, e il lettore va adeguando lo sguardo dall’interno del carcere».
L’intertestualità è un nucleo della sua opera. Nel testo che descrive, Thierry, l’attore che l’accompagna, legge ai detenuti Il Figlio del fisarmonicista. A 20 anni dall’uscita, perdura. Una volta ha detto che «la buona letteratura è quella che cerca la verità». Qual è la verità di questa novella?
«La verità ha che vedere con il linguaggio, uno strumento di enorme potenza che può travisare la realtà con due virgole e quattro aggettivi. In letteratura non credo ci sia altra regola che l’interiorità. L’autore che racconta uno spaccato di ciò che accadde nel Paese Basco negli anni ’80 ’90 ha fatto parte di quella realtà. Sono partito dalla mia esperienza di prima mano. Questo garantisce la verità? No, è una condizione necessaria ma non sufficiente. Ricordo le critiche di chi mi accusava di umanizzare i membri di Eta. Per me è invece una lotta al luogo comune, velenoso, sul conflitto».
Attraverso l’amicizia di Joseba e David racconta le speranze e le perdite della generazione che affrontò il franchismo e scelse la lotta armata. Dopo il carcere, David lascia la Obaba natale per un nuovo inizio negli Usa. A Stonaham trova il suo paradiso, dove però si aprono crepe del passato. La memoria è nei dettagli che non si possono interrare?
«Le immagini che utilizzo sono come insetti imprigionati nell’ambra. Non tutto quello che resta registrato nel cervello è uguale. Io parto da ciò che è rimasto nella memoria come una ferita, ed è come ho scritto tre libri su quell’epoca. Per me, la cosa più dura e preziosa da accettare è il modo in cui queste persone entrarono nella corrente di un fiume che le avrebbe portate alla distruzione. È una tragedia umana».
Anche la poesia nell’introduzione, “Morte e vita delle parole”, con i termini invertiti, fa riferimento alla continua evoluzione della lingua: è il territorio che abitiamo?
«Non solo lo abitiamo. Non esiste la casa del linguaggio, perché non c’è differenza fra il soggetto e la finestra o le pareti dell’abitazione. Il linguaggio è come una goccia d’acqua in una nube. È ciò che chiamiamo anima. Fuori dalla memoria non c’è nulla. Senza, non sapremmo chi è la persona che vediamo nello specchio, che porta i segni di ciò che abbiamo lasciato lungo la vita».
Lei fa parte dei consulenti per il programma di Sumar, il nuovo soggetto della sinistra spagnola fondato dal Yolanda Diaz. Si prepara a essere ministro della cultura?
«Per manifestare il mio appoggio a Yolanda Diaz ho utilizzato una favola di Augusto Monterroso, autore di fiabe ironiche e acutissime. Si intitola La fede muove montagne. E lei ha mostrato un briciolo di fede che le cose si possano fare in un altro modo. Sono cosciente del fatto che il mio nome in Sumar dichiara che non sto con il nazionalismo, né radicale né moderato. Non ho grandi idee, ma sono convinto che, se si lascia la gente fuori dalla cultura, la si esclude dal linguaggio e la si espone alla manipolazione. In quanto a ministro, io non valgo come politico. Sono stato e sono totalmente indipendente. Preferisco non avere un premio, se comporta catene».
A proposito di premi, tra poco ne riceverà uno in Italia…
«Il premio Ostana, un paesino in Piemonte dove si parla occitano, che hcelebra le scritture in lingue minoritarie. Ci andrò a giugno, ho già la traccia del discorso: ha a che vedere con la parola “persona”, che indica in origine la maschera nel teatro greco ed era, fra l’altro, una cassa di risonanza perché nell’anfiteatro tutti potessero sentire. La parola “persona” viene a dire che un soggetto ha bisogno di una risonanza, di una considerazione sociale per esistere. Ed è lo stesso per le lingue minoritarie. Ho cominciato a rifletterci guardando una piccola foto di mia nonna, un’immagine triste. Pensai, che brutta foto, mentre re e principi - tutti più stupidi di mia nonna - hanno i loro dipinti, la loro grancassa sociale. Un’ingiustizia tremenda. La letteratura fa anche questo: dà eco, esistenza sociale alla gente che non l’avrebbe. Va all’incontro di ciò che condiziona socialmente, ad esempio la povertà».