Atletica. Il tesoro dell’Africa ai Mondiali di Londra
Il sudafricano Wayde Van Niekerk, 25 anni, oro nei 400 metri a Londra
«L’anima di una nazione: l’arte nell’età del Black Power», è il titolo della mostra allestita fino a ottobre alla Tate Gallery. Turisti e appassionati sono in coda sulla riva del Tamigi, nonostante la pioggia, in attesa di ammirare tele e sculture contemporanee al movimento per i diritti civili che dilagò negli Stati Uniti tra gli Anni Sessanta e Settanta del Novecento. Nello sport l’emblema del Potere Nero fu il pugno alzato da Tommie Smith e John Carlos sul podio dei 200 metri ai Giochi di Città del Messico 1968. A quasi cinquant’anni di distanza dal quel gesto, l’atletica sta scoprendo un nuovo potere nero, quello tracimante direttamente dall’Africa e non semplicemente promanato dagli afroamericani. A Roma 1960 l’oro dello scalzo etiope Abebe Bikila nella maratona fece scalpore, oggi i successi africani sono la normalità. Nei primi cinque giorni del Mondiale sette nazioni del Continente nero hanno calcato il podio, conquistando diciotto medaglie equamente distribuite tra i tre metalli. E soprattutto su tutte le distanze, dai 100 alla maratona, non solo nel mezzofondo, terreno di caccia prediletto dai nativi della Rift Valley. Oltre a Kenya e Etiopia stanno crescendo pure Sudafrica e Uganda, per non parlare del Botswana, ancora a secco dopo cinque giorni, ma pronto a raccogliere da qui a domenica. Africa sopra tutti quindi, con la copertina che spetta all’estrema punta meridionale: il caso Sudafrica diverte i londinesi e strappa applausi su pista e pedane. Di Wayde Van Niekerk si sapeva. L’uomo deputato a ricevere il testimone da Usain Bolt ha concluso vittoriosamente il primo atto, imponendosi nei 400 della discordia, per via dell’esclusione del botwsano Makwala, appiedato dalle rigide regole sanitarie inglesi che gli hanno imposto 48 ore di quarantena in seguito alla gastroenterite (ma “risarcito” ieri con una batteria corsa da solo, nella quale ha staccato agevolmente il tempo necessario per accedere in semifinale). Non avrà la personalità di Bolt, non saprà trascinare il pubblico come il giamaicano, non avrà un nome emblematico come quello del Fulmine. Eppure Wayde Van Niekerk si candida a guidare l’atletica del dopo Usain. Dopo il sensazionale titolo olimpico di Rio accompagnato dal record mondiale a 43'03, il venticinquenne sudafricano ha vittoriosamente difeso il titolo mondiale conquistato due anni fa a Pechino. Allora era un ragazzino alle prime armi, oggi è una star dello sport. Qui a Londra cercherà di emulare Michael Johnson, conquistando 200 e 400, intanto ha confermato che il giro di pista ha un sovrano incontrastato: lo studente di marketing all’Università di Bloemfoentein, allenato dalla 75enne Ans Botha. Caster Semenya, la donna che fa discutere per la sua mascolinità, è la favorita sugli 800, intanto si è messa al collo il bronzo dei 1500, in un Mondiale dove i cercatori di metalli preziosi in più discipline abbondano. Sulla pedana del lungo è andato in scena un festival made in Sudafrica. Sul gradino più alto è salito Luvo Manyionga, un passato tra alcool e droga prima della redenzione con l’argento di Rio. Sullo scalino più basso si è affacciato invece Ruswahl Samaai. Due decenni fa il Sudafrica - ammesso ai Mondiali dal 1993 - vinceva con gli atleti bianchi, adesso le star hanno la pelle scura e sono i millennial post Apartheid. Buona parte di loro trascorre l’estate a Gemona del Friuli, c’è quindi anche un pizzico d’Italia nei successi della nazione dell’arcobaleno. Due anni or sono in terra cinese il Kenya conquistò il medagliere, dominando oltre che il mezzofondo anche il tiro del giavellotto e i 400 ostacoli, discipli- ne solitamente avverse ai corridori degli altipiani. Qui ha fatto incetta di medaglie tra 800, 1500, 3000 siepi, 10.000 e maratona. Il tutto mentre in patria la furia del doping sembra non placarsi, col coinvolgimento di atleti di grido e medici stranieri. La distanza più lunga in pista e la corsa su strada hanno sorriso all’Etiopia, all’Uganda e alla Tanzania. A proposito della 42 chilometri, la vincitrice della prova femminile, Rose Chelimo, batte bandiera del Bahrein, ma è nata in Kenya. Obbligatorio pertanto aprire una parentesi sulle razzie dai Paesi del Golfo - Qatar e Bahrein in testa - che hanno naturalizzato un sacco di africani in cambio di petrodollari e strutture dove allenarsi. È questo il punto focale della vicenda. Senza tecnici di livello e piste su cui correre non è possibile eccellere nell’atletica. La Federatletica Mondiale lo capì a metà anni Novanta, quando decise di aprire dei centri di formazione in Africa. Il primo fu a Dakar nel 1995. Era dedicato a velocità, salti in estensione ed ostacoli, e ha coordinarlo fu Elio Locatelli, attuale direttore tecnico della Fidal. Successivamente furono aperti centri di sviluppo a Eldoret in Kenya e sull’isola principale di Mauritius. Poi si è aggiunta una struttura al Cairo, dove formare allenatori e allevare i talenti reclutati lungo il continente. Molti altri cercano la strada dell’estero. C’è quindi anche un’emigrazione di gambe veloci dietro alle medaglie africane di Londra. È il caso dell’ivoriana Marie Josee Ta Lou, argento sui 100, da fresca diplomata volata in Cina per studiare e allenarsi all’Università di Shanghai. Dopo qualche anno ha deciso di tornare in patria e ora è gestita da un manager italiano. Per completare il puzzle africano non poteva mancare il Maghreb, sul podio dei 3000 siepi col ventunenne Soufiane Elbakkali. Dal Nord al Sud c’è un continente che scalpita, in attesa di ospitare per la prima volta un Mondiale: il 2025 potrebbe essere l’anno buono. Con l’atletica possibile apripista per i Giochi olimpici.