Ricerca. Atenei, quali competenze?
Raffaella Rumiati (coautrice dell’intervento qui sopra con Daniele Checchi, docente di Economia politica all’Università statale di Milano) insegna Neuroscienze cognitive alla Scuola internazionale superiore di studi avanzati (Sissa) di Trieste ed è vicepresidente dell’Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (Anvur). Sarà uno dei relatori al Convegno internazionale di Neuroetica (la disciplina focalizzata sulle ricadute teoriche e pratiche delle neuroscienze) che si svolge all’università Vita-Salute San Raffaele di Milano da mercoledì 15 a venerdì 17 maggio, organizzato dalla Società italiana di neuroetica (SINe) insieme con la Società internazionale di neuroetica (INS) e il sostengo della Fondazione Cariplo. Tra i relatori, A. Owen, B. Sahakian, A. Mele, F. Guala e A. Salles. La SINe promuove anche la Settimana della Neuroetica, una serie di incontri divulgativi che si svolgono in 8 università e centri di ricerca milanesi fino a sabato 18. Programma completo e informazioni: www.societadineuroetica.it; convegno@societadineuroetica. it.
Sebbene nell’ultimo decennio il numero dei laureati triennali in Italia sia progressivamente aumentato, al 2017 aveva ottenuto un titolo di studio di istruzione terziaria il 26,9 per cento della popolazione tra i 25 e i 34 anni, a fronte del 39 per cento degli altri Stati europei. Aumentare il numero di giovani che completano con successo un corso di istruzione terziaria è un traguardo che il nostro Paese dovrebbe impegnarsi a raggiungere in tempi ravvicinati. Si tratta di individuare una strategia efficace per ottenere tale risultato, cui possono contribuire anche le neuroscienze e la neuroetica in particolare. Alcune azioni necessarie includono l’ampliamento del diritto allo studio, attraverso la contrazione delle tasse universitarie ma anche (e soprattutto) attraverso l’erogazione di borse di studio condizionate ai risultati conseguiti. Non solo: per ridurre il tasso di abbandono, particolarmente elevato nel passaggio dal primo al secondo anno, specie per i diplomati degli istituti professionali e tecnici, occorre rendere effettivo l’accertamento delle conoscenze all’ingresso e la predisposizione di obblighi formativi aggiuntivi (OFA). Infine, può rivelarsi opportuna una maggior articolazione dell’offerta formativa che intercetti più efficacemente le sollecitazioni del mondo del lavoro, anche con l’ampliamento del segmento degli istituti tecnici superiori (ITS), senza trascurare creatività e innovazione che non rispondono necessariamente a logiche di mercato.
Ma occorre anche interrogarsi su quali siano le competenze che i laureati dovrebbero possedere al termine del percorso universitario. Il dibattito intorno alla didattica centrata sulle competenze è stato sollecitato anche dalle raccomandazioni emanate dall’Unione Europea a Yerevan nel 2015, che avevano come scopo principale l’integrazione delle competenze per la cittadinanza e per l’apprendimento permanente nelle politiche educative dei singoli Paesi membri. In Italia, l’avvicinamento del sistema universitario al tema delle competenze si sta realizzando con la partecipazione attiva della comunità accademica. È opportuno innanzitutto distinguere le competenze trasversali – linguistiche, numeriche o di risoluzione di problemi, già in possesso degli studenti al momento dell’ingresso all’università, come registrato dai test INVALSI, ma che possono però venire potenziate frequentando un corso universitario – dalle competenze disciplinari, quelle cioè che riflettono la formazione direttamente impartita dal corso di studi intrapreso.
La differenza tra esiti rilevati negli studenti in ingresso e quelli rilevati negli studenti in uscita dall’università può essere attribuita agli effetti della formazione universitaria. Tuttavia tali effetti sono influenzati anche dalle caratteristiche iniziali degli studenti quali il tipo di scuola frequentata, il tipo di professione o il titolo di studio dei genitori. In uno studio recente dell’Agenzia Nazionale di Valutazione del sistema Universitario e della Ricerca (ANVUR), che ha coinvolto un ampio campione di studenti delle professioni sanitarie, è stato dimostrato come le caratteristiche iniziali influenzino il miglioramento nelle competenze trasversali ma non quello nelle competenze disciplinari. Questo risultato rafforza l’evidenza sul ruolo formativo dell’università anche in riferimento alla capacità di partecipazione attiva alla vita sociale dei futuri cittadini. A rinforzo di quest’ultima affermazione, in una ulteriore indagine svolta dall’ANVUR in collaborazione con l’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (INAPP), si è osservato che le competenze trasversali correlano con gli esiti lavorativi: i laureati che risultavano già occupati al momento della rilevazione hanno ottenuto punteggi alle prove linguistiche e numeriche più elevati rispetto ai non occupati, nonostante lo status socio economico basso della famiglia di provenienza. Sembra quindi possibile dedurne che, nonostante la famiglia e il contesto socio- economico di provenienza contribuiscano all’apprendimento cognitivo degli studenti, l’istruzione terziaria concorre non solo al mantenimento delle competenze trasversali ma anche al loro potenziamento, oltre naturalmente alla formazione delle competenze disciplinari. Un livello superiore di istruzione formale apre a maggiori opportunità di impiego: nel 2017, il tasso di occupazione nella popolazione di 25-34enni era di alcuni punti superiore nel caso dei laureati (66,2) rispetto ai diplomati (63,6%) (fonte ISTAT). Con l’accelerazione dello sviluppo tecnologico, il rapporto tra istruzione e mondo del lavoro è destinato a cambiare rapidamente. Le competenze che erano molto richieste sino a un passato recente diventano velocemente obsolete; dal momento che il progresso tecnologico aumenta la domanda di lavoro esperto (che cioè fa ampio uso di competenze cognitive), i lavoratori con competenze cognitive meno sviluppate sono a rischio di venire confinati ai margini dal mercato del lavoro. La necessità di continuare ad acquisire nuove competenze diventa pertanto inevitabile e il sistema educativo ha il compito di fornire le competenze richieste, anche in una prospettiva di educazione permanente.
Da ultimo, il dibattito si è esteso sino a cercare di comprendere il ruolo delle competenze cosiddette non cognitive, ovvero carattere e la personalità, soprattutto in considerazione del fatto che anch’esse risultano correlate agli esiti scolastici e di vita delle persone. Alcuni contributi scientifici hanno mostrato come interventi volti a stimolare aspetti desiderabili della personalità hanno ottenuto risultati migliori di quelli mirati ad aumentare il quoziente intellettivo (QI), suggerendo che le abilità non cognitive potrebbero essere più malleabili del QI. Un’ulteriore considerazione riguarda la tempestività con cui tali interventi debbano essere messi in atto, partendo dall’osservazione che sono tanto più incisivi quanto più sono precoci. A oggi, però, manca una caratterizzazione soddisfacente dei meccanismi neurobiologici implicati nelle competenze non cognitive. Questo elemento conoscitivo è necessario per identificare i periodi critici in cui esse maggiormente interagiscono con la cognizione, anche a questi livelli di descrizione. Nei prossimi anni l’approfondimento sui possibili legami tra competenze cognitive e non cognitive è destinato a svilupparsi dal momento che i risultati correnti contengono vari limiti (campioni con caratteristiche molto specifiche, monitoraggio degli interessati per periodi ridotti di tempo, disomogeneità degli esiti di vita considerati) che ne rendono difficile la generalizzazione. Se tuttavia questi risultati venissero confermati e generalizzati, si aprirebbe un nuovo terreno su cui verificare l’azione formativa di scuola e università, in connessione più diretta con lo sviluppo complessivo della persona.