Il primo compito nell’ordine delle urgenze consiste secondo noi nel ripartire risolutamente dal concilio Vaticano II prendendo finalmente sul serio non solo quanto concerne lo spazio liturgico, l’altare e il mobilio, ma più globalmente l’orientamento indicato in generale alle belle arti nella Costituzione sulla liturgia. Vi si dichiara fra l’altro che «la Chiesa non ha mai fatto suo alcuno stile», ma che accoglie volentieri tutti gli stili nella misura in cui si prestano a servire la liturgia. Vi si parla anche, forse per la prima volta nella lunga storia dei discorsi della Chiesa sull’arte, del «ministero» di quest’ultima e del suo ruolo potenzialmente teologale, ben al di là del livello puramente funzionale o decorativo in cui si sarebbe talvolta tentati di confinarla, almeno in Occidente. L’importanza di questa dichiarazione non è certamente ancora stata percepita nel suo giusto valore; o se lo è stata, oggi non lo è più. Rari sono i rimandi a questo testo negli scritti relativi all’arte religiosa della nostra epoca. Alcuni teologi fra gli specialisti (poco numerosi) dell’arte sacra cristiana del XX secolo lasciano tranquillamente intendere che questo testo conciliare è ai loro occhi ampiamente superato e non più degno di vero interesse, in quanto non sarebbe all’altezza delle sfide del momento per non aver saputo valutare il cammino dell’arte nell’ultimo secolo. Mi permetto di essere di parere contrario. La dichiarazione conciliare costituisce un principio dalle molteplici applicazioni e rimane senza equivalenti nella lunga storia dei discorsi magisteriali sull’arte. (...) D’altro lato è chiaro che se i rapporti fra le comunità cristiane e l’arte devono ridiventare toniche ed esigenti, non ci si potrà limitare alla prospettiva generosa ma pur sempre alquanto vaga espressa dal Concilio, che è essenzialmente una prospettiva di accoglienza per quanto, si precisa, condizionale. C’è indubbiamente qualcosa di più e di meglio da fare. «Accoglienza» è diventata la parola magica per una concezione minimalista dei rapporti fra la Chiesa e le arti, a dispetto delle sue arie di apertura e di generosità. La «condizionalità» è una clausola che rischia di applicarsi solo
a posteriori: e allora sarebbe troppo tardi. È piuttosto a monte, nei momenti chiave della concezione e della commissione dell’opera destinata a luogo di celebrazione liturgica, che importa che gli artisti e i rappresentanti della Chiesa si incontrino e confrontino i loro punti di vista.Ciò implica non solo che la Chiesa impari nuovamente a commissionare e a formulare le sue attese invece di limitarsi a dire «io assumo», «io accolgo», «io compero«, ma anche che si accerti che gli artisti suscettibili di lavorare per essa siano capaci di farlo in conoscenza di causa e siano stati sufficientemente formati alla bisogna. Ma quali sono gli artisti che accettano di entrare in tale prospettiva, e quale istituzione è in grado di proporre loro una formazione? La Chiesa cattolica deve imparare nuovamente a spender tempo e denaro per formare dei chierici nel solco degli stretti e complessi legami che per secoli sono esistiti fra essa (la sua liturgia, la sua catechesi, la sua missione) e le arti. A quando l’inserzione nelle facoltà di teologia di una vera formazione all’iconografia cristiana, e più generalmente alla lettura dell’immagine, che non sia una semplice spolveratura omeopatica? (...) Un altro compito sarebbe prendere in considerazione e pensare teologicamente il venir meno delle figure del Dio cristiano nell’arte moderna e contemporanea. Si tratterebbe di pensare lo svanire del volto nell’arte del XX secolo; di tornare una volta di più sulla questione di sapere quali possono essere ora i rapporti del cristianesimo con la figura. Hans Urs von Balthasar era del parere che «solo quel che comporta una figura può trasportare e tuffare nel rapimento (…) Senza figura l’uomo non può essere afferrato né trasportato. Ed essere trasportato è l’origine del cristianesimo». Ci si può tuttavia chiedere se il problema è ben posto. Si può pensare che la vera posta in gioco nel mantenimento o nella dimenticanza della figura in generale e del volto in particolare sia altrove piuttosto che nel «rapimento», versione un po’ barocca di una delle tre funzioni tradizionalmente assegnate all’arte religiosa («commuovere, far ricordare, istruire»). Un ulteriore obiettivo sarebbe denunciare il fossato che si va scavando fra l’arte d’avanguardia e la gente (non solo i cristiani). Essa decisamente non capisce più. Anche con la miglior buona volontà, anche quando si sente in dovere di aggiornarsi per avere qualche occasione di capire, non riesce proprio a seguire. Subentra una pesante stanchezza, molto smobilitante: si finisce per abituarsi a non capire, ben presto si cesserà di sentirsi colpevoli o stupidi per questo.Converrebbe dunque chiedersi perché quanti hanno la responsabilità di decidere, nei musei, nei ministeri o nella Chiesa, con il pretesto frutto di sollecitazione ma fraudolento che è quello che vuole la gente, o con il pretesto che bisogna aprirsi alla modernità, privilegiano tanto e in modo così unilaterale «il rapporto con la cultura» (sottinteso: d’avanguardia) senza tenere in alcun conto la sensibilità reale e le attese della gente e senza rendersi conto che rischiano di accreditare «un bluff gigantesco». Trascurando certe forme culturali che non possono più mostrarsi, ne favoriscono arbitrariamente altre, in particolare «l’arte di Chiesa-Stato» (la separazione ha qui ceduto il posto alla collusione), forme che non hanno alcuna possibilità di ricezione nel popolo di Dio. È forse un effetto della paura profonda, tanto più imperiosa in quanto incosciente, di «perdere l’autobus», di non riuscire a imbarcarsi nell’ultimo treno culturale in partenza? Checché ne sia, quest’obiettivo implica rendere la parola e una certa visibilità a tutti quegli artisti che lavorano nell’ombra e che pur controcorrente continuano senza provare vergogna e senza nascondersi (ma anche senza ostentarlo) a ispirarsi alla Bibbia, alla liturgia e alla teologia. Sono più numerosi di quanto si pensi. Ma chi si cura di andare incontro a questi soldati semplici dell’arte? Chi sono? Dove sono recensiti? Dove si fa memoria di quanto essi hanno creato dal 1950? Quali sono i luoghi che osano dedicar loro le proprie strutture? Essi non tengono a esser chiamati «pittori religiosi». Non importa: è certamente grazie a loro, lo si scoprirà un giorno, che prosegue, al di là delle rotture annunciate e proclamate, la vasta storia delle forme di cui la Bibbia rimane «il grande codice».